Fighting Force: un gioco da cabinato su console

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I più anzianotti ricordano quanto bello fosse recarsi nella sala giochi di fiducia e spendere un capitale sotto forma di monetine, inserendole in quei grossi contenitori di felicità: i cabinati. All’epoca i beat ‘em up suonavano la carica e offrivano ore di gioco spensierate fino all’arrivo della sera, quando erano le mamme infuriate a suonarle ai figli. Con l’avvento delle console, i picchiaduro non sono stati accantonati, ma sono stati protagonisti di una rivoluzione dal punto di vista delle meccaniche e, ovviamente, sull’aspetto tecnico.

I picchiaduro a scorrimento hanno lasciato il posto a giochi più grandi, con paesaggi in 3D e modelli poligonali spaccamascelle. Tanto che, ormai, la definizione di picchiaduro sta inglobando anche giochi in cui, sì, si tirano tante mazzate, ma non mettono quel tipo di meccanica al centro del villaggio. Persistono i picchiaduro a incontri: da Street Fighter a Tekken, da Mortal Kombat a Soul Calibur, fino ad arrivare ai picchiaduro ispirati alle serie animate – Dragon Ball, Naruto, One Piece.

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Il picchiaduto a scorrimento è ormai relegato all’industria indie che sempre più spesso ripropone il vecchio andazzo degli scenari in 2D e della grafica a 8 o 16 bit. Eppure, su console di generazioni andate, il picchiaduro a scorrimento ha avuto dei “rigurgiti”, nostalgiche rimembranze delle vecchie glorie: da Double Dragon a Final Fight. Uno di essi è Fighting Force, picchiaduro uscito nel 1997 su Playstation e nel 1999 su Nintendo 64, sviluppato da Core Design. Un gioco eccelso? Non proprio, ma che vale la pena ricordare sia per il suo essere ancora un po’ cabinato sia per la sua volontà di fare da ponte tra il classico e il nuovo.

Se vi siete persi gli articoli precedenti dedicati al retrogaming potrete ritrovarli comodamente tutti a questo link. Troverete Final Fantasy, Resident Evil, Silent Hill e molte altre chicche raccolte solo per voi!

Fighting Force: quattro personaggi in cerca di guai

Abbiamo citato Double Dragon e Final Fight. Ebbene, Fighting Force doveva far parte, più o meno, di quella schiera di giochi. Il titolo di Core Design, infatti, era stato concepito come un capitolo della serie Streets of Rage per poi diventare un gioco a sé stante. Anzi, una serie, perché Fighting Force ha avuto anche un seguito, ma ricordare quel prodotto non è un sforzo mnemonico fondamentale.

Fighting Force prevedeva la scelta di un personaggio da un roster composto da quattro brutti ceffi – due uomini e due donne – ognuno con caratteristiche diverse che, a onor del vero, non avevano tutto questo impatto sull’avventura. Ricordo che all’epoca in cui lo giocai, mi buttai su Smasher, il più grosso di tutti. I suoi bicipiti non potevano lasciare indifferente chi cercava gloria in un picchiaduro. Forte, fortissimo, ma abbastanza esposto all’attacco di nemici più mingherlini e armati di pistola.

Decisi, dunque, di ricominciare il gioco con Hawk, il tipico personaggio un po’ bulletto e spaccone. Molto meglio, un po’ di agilità in più non guastava, anche se, ripeto, in Fighting Force tutta questa differenza non si sentiva a lungo andare. Le due donne che completavano il roster erano Alana e Mace. La trama che li vedeva protagonisti era il consueto pretesto: uno stramboide di nome Dr. Dex Zeng, ha predetto la fine del mondo nell’anno 2000. Niente di pericolosissimo, se non fosse che il pazzo ha anche un esercito a sua disposizione. Nostra premura era catturarlo dopo averle cantate ai suoi scagnozzi.

Devo riconoscere di non essere un estimatore di Fighting Force o, almeno, di non esserne un patito. Le meccaniche, i movimenti, la fluidità di gioco mi sono sempre sembrate più adatte a una toccata e fuga in sala giochi, piuttosto che a un gioco su console con ambienti in tre dimensioni. Fighting Force, comunque, aveva dalla sua l’immediatezza del gameplay che, a chi vuole godersi un picchiaduro senza fronzoli, poteva piacere senza particolari remore. Fighting Force aveva qualche punto in comune con la serie Final Fight di Capcom, ed è proprio di quest’ultimo che apprezzai un capitolo “revival”, quel Final Fight Streetwise uscito nel 2006 su PS2 che mi fece divertire da pazzi.

Pugni, calci e prese erano ciò che il gioco di Core Design metteva sul piatto. Tutti i personaggi avevano anche un attacco speciale che eliminava i nemici circostanti. In Fighting Force era possibile anche annientare i nemici con l’utilizzo di oggetti di varia natura che potevano essere raccolti dopo aver distrutto mezza ambientazione. Distruggendo un’auto, ad esempio, avevamo la possibilità di raccogliere gli pneumatici e usarli contro i cattivoni di turno. Lo stesso, però, potevano fare loro con noi.

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Dal punto di vista grafico, Fighting Force aveva alti e bassi, ma nel complesso funzionava. I personaggi erano un po’ spigolosi, ma non si poteva pretendere più di tanto. Sulle ambientazioni, invece, qualcosa in più si poteva fare: c’era una buona varietà di situazioni ma con fondali fondamentalmente statici e poco appariscenti. Per quanto riguarda le animazioni, Fighting Force proponeva poca scelta nell’arte del combattimento corpo a corpo, ma tanto bastava per massacrare gli avversari.

Alcuni livelli toccavano picchi di difficoltà a causa di controlli non sempre ineccepibili e di una scelta non felicissima da parte del team di sviluppo, cioè quella di assegnare più funzioni a uno stesso tasto. Nel complesso, però, si riusciva ad andare avanti picchiando come fabbri e scatenando la propria furia sui malcapitati, che poi è ciò che conta se si gioca a un titolo che dichiaratamente vuole essere un omaggio ai classici beat ‘em up.

Chi ha letto fin qui avrà percepito, da parte del sottoscritto, una vena fin troppo critica nei confronti di questo titolo. Non lo nego, ma non nego neanche che Fighting Force sia stato un buonissimo compromesso per continuare a giocare ai picchiaduro dell’adolescenza senza muoversi da casa. Risse da bar e tafferugli da strada sono stati ben riproposti e hanno saputo ben approfittare del filtro della nostalgia. Fighting Force rientra tra i classici senza tempo grazie alla sua capacità di trasformare una cameretta in una sala giochi, evitando l’indebitamento a vita.