Open world diverso dagli altri? Kojima prova a crearne uno

Kojima vuole creare un open world diverso dagli altri con Death Stranding

Hideo Kojima sta iniziando a sbottonarsi un po’ di più rispetto al passato riguardo a Death Stranding. Qualche giorno fa, ha dichiarato durante il Tribeca Film Festival 2019 che la sua ultima creazione sarà un open world diverso dagli altri. L’originalità di Death Stranding e del suo approccio alla libertà d’azione in un mondo aperto si verificherà, a sua detta, nel modo in cui i giocatori si “connetteranno” con il mondo e con gli altri personaggi.

Prendiamo atto delle sue parole e speriamo davvero che sia così, ma queste sue dichiarazioni ci portano a farci una domanda: è possibile, oggi, creare un open world davvero originale e che non sappia di già visto e già giocato?

Sviluppare un open world può diventare un’arma a doppio taglio, perché riempire saggiamente un mondo di gioco più o meno vasto non è cosa semplice. Si rischia, spesso, di ripetersi e di dare in pasto ai giocatori missioni tutte uguali, banali e ridondanti riempitivi che sfociano poi nella noia.

Open world: si sta esagerando?

Le cose sono cambiate molto rispetto a decine di anni fa. Pensateci bene: quando si pensava agli open world, la mente collocava quella definizione il più delle volte ai giochi di ruolo, occidentali o orientali che fossero, quasi mai agli action. Quando usciva un open world senza alcuna meccanica ruolistica, si era entusiasti perché stanchi della troppa linearità dei videogiochi.

Esempio lampante è Grand Theft Auto poiché qualsiasi gioco uscito dopo il titolo Rockstar, che avesse più o meno le sue caratteristiche, veniva considerato un GTA-like. D’altronde, in titoli maggiormente d’azione non si era abituati ad avere un’intera mappa a disposizione per fare tutto quello che ci passava per la testa.

Oggi, invece, quando viene annunciato un nuovo videogioco, ci si domanda subito se anche questo sarà un open world e se avrà elementi ripresi dagli RPG. Ormai è uno standard. Parecchie software house hanno deciso di rivoltare come un calzino le proprie saghe più famose, tramutandole in open world.

L’evoluzione hardware ha permesso, di certo, agli sviluppatori di creare mondi più estesi e più realistici, ma siamo sicuri che l’evoluzione, divenendo prassi, non stia ottenendo il risultato contrario? Sviluppare un open world significa dare le chiavi in mano ai giocatori e far sì che siano loro a decidere dove andare, cosa fare e quando… se la noia e la frustrazione non sopraggiungono prima.

Siamo invasi da titoli tanto vasti e pieni di attività da compiere, ma quanti di questi sono davvero originali e ci convincono seriamente ad andare avanti per divertimento, per amore dell’esplorazione e non per disperazione? Non è raro, ormai, incappare in decine e decine di missioni palesemente inserite per allungare il brodo. Diventare fattorino in un mondo post-apocalittico non è diverso dal diventarlo in un contesto sci-fi. Andare dal punto A al punto B per raccogliere piante di lavanda (Days Gone docet, a proposito, leggete la nostra recensione) non è diverso dal recarsi da un personaggio secondario, che non vedremo mai più, a riferirgli un messaggio.

Il troppo stroppia. Non è il caso di titoli che inseriscono attività collaterali a prima vista futili per mostrare uno spaccato della società rappresentata (a tal proposito leggete il nostro approfondimento), è invece il caso di giochi che vogliono farci credere di avere una durata di 60 ore, ma che, in realtà, durano 20 ore a cui ne vanno aggiunte altre 40 di girotondo.

Chi l’ha detto che la linearità è male? Se si va avanti per inerzia, l’obiettivo dell’open world è fallito. Dunque, c’è davvero bisogno di creare sempre e comunque mondi tentacolari e sterminati? Con un level design di prim’ordine anche un action “lineare” può ancora dire la sua.

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