Uno scudo per domarli e con il Doomslayer terrorizzarli: ecco la nostra recensione di Doom: The Dark Ages (PC)

Un artwork di Doom The Dark Ages

Di Doom: The Dark Ages c’è una singola cosa di cui chi scrive questa recensione si lamenterà da qui fino alla fine dei tempi: il design dei cacodemoni. Il resto è materiale per analisi e ragionamenti ma il nuovo design dei cacodemoni, trasformati per l’occasione in una specie di droni volanti metallici, è il più grandi pugno in un occhio visto nel gioco.
E… fine, per le lamentele sperticate potremmo quasi fermarci qui perché, nella pratica, Doom The Dark Ages ci è piaciuto e anche tantissimo.
Meno del suo predecessore: sia chiaro; Doom Eternal è ancora oggi, specie per chi scrive, uno dei dieci migliori sparatutto della storia, specie con i DLC che danno un ulteriore senso alla narrativa.

Doom The Dark Ages però riesce nel fare una cosa che era inaspettata: presentare un gameplay altrettanto interessante e divertente, pur partendo da elementi concettuali radicalmente diversi. Un salto nel vuoto che però il Doomguy ha saputo effettuare con la sua tipica tracotanza, per un risultato finale che è imperfetto (per motivazioni che esulano dal design del cacodemone, sia chiaro), ma che è comunque degno di un videogioco tra i migliori dell’anno, almeno all’interno del suo genere.

Come siamo arrivati a Dark Ages?

Nel panorama dei videogiochi pochi sono i titoli che hanno avuto lo stesso impatto tellurico di Doom, che dagli anni novanta in poi ha definito uno stile di intendere il videogioco. Prima persona, un gameplay frenetico, attenzione al posizionamento, mappe labirintiche; Doom è stato autore di “tante prime volte” nel mondo dei videogiochi e alcune di queste hanno cambiato per sempre il modo che ha avuto il grande pubblico di intendere il genere, non riuscendo però a rinnovarsi abbastanza velocemente con il passare degli anni.

Nel 2016 però Bethesda, forte dell’avere tra le mani una delle IP più forti del globo, ha deciso di riprovarci e id Software, spoglia dei nomi che hanno scritto la sua storia ma non per questo priva di talenti, è riuscita a canonizzare un nuovo paradigma per DOOM: fantascienza cinetica in cui un supersoldato si prende la briga di polverizzare qualsiasi forma di vita demoniaca presente nel raggio di 50000 chilometri intorno a sé. Meccanicamente questa scelta è stata resa attraverso un delicato equilibrio tra dinamismo e gestione delle risorse, con manovre offensive che vanno a far recuperare quella o l’altra risorsa.

Tale paradigma è stato portato ancora più all’estremo con Doom Eternal, che ha aggiunto ulteriore complessità a questa scelta dando al nostro Doomguy una capacità di movimento mai vista prima. Armi primarie e armi secondarie vanno fatte danzare contro gli avversari, nel mentre si schivano proiettili e si saltano burroni, tutto alla velocità della luce (o quasi); un gameplay “diverso” dal Doom originale, che era molto più lento e molto più posizionale, con un game design che orbitava intorno alle diverse tipologie di nemici presenti nel gioco e alle unicità di ognuno di loro.

Doom: The Dark Ages fa una cosa pazza e cerca di tornare un pizzico più indietro di quanto fosse stato fatto con Eternal, andando a fondere due anime in apparenza contrastanti. Di fatto DTDA è un boomer shooter con, però, un forte gusto per l’innovazione al suo interno grazie a una scelta coraggiosa: trasformare la difesa in attacco.

Sappiamo tutti quanti qual è la migliore difesa, vero?

Una delle glory kills presenti all'interno di Doom The Dark Ages
Sappiamo tutti quanti qual è la migliore difesa, vero? (player.it)

L’idea al centro del nuovo gameplay di Doom: The Dark Ages è semplice: lo slayer è dotato di uno scudo che può utilizzare per parare tutti gli attacchi e rimbalzarne al mittente alcuni. Questo scudo permette allo slayer di prendere tempo in mezzo a quantità imbarazzanti di proiettili ma anche di muoversi rapidamente verso obbiettivi precisi, quasi come se il nostro fosse il novello Capitan America. La prima grande differenza rispetto al passato è data dalla fisicità del protagonista, stavolta molto più simile a un vero e proprio carro armato M1 Abrams, in grado di muoversi verso i propri obbiettivi con una flemma quasi inquisitoria; questa fisicità viene rispecchiata dal sistema di movimento, che al netto dello scatto derivante dallo scudo (e collegato a un sistema di cariche a tempo) non prevede rapidi movimenti per il giocatore.

Il doomslayer, quindi, deve scegliere con grande attenzione dove stare e quando, pena il beccarsi una montagna di colpi addosso. Fortunatamente questi sono segnalati con due, classicissimi, colori: rossi per i colpi parabili, verdi per i colpi “parryabili”, manco fossimo dentro Dark Souls. Questi ultimi sono il sale del gameplay e rappresentano la meccanica principale intorno a cui si orienta buona parte delle esperienze di gioco: attraverso la pressione di un comodo tasto poco prima dell’impatto, il nostro protagonista avrà modo di rimandare il colpo al mittente, infliggendo esso consistente danno. 

Uno dei livelli avanzati di Doom The Dark Ages
Sappiamo tutti quanti qual è la migliore difesa, vero? (player.it)

Il resto del gameplay grossolanamente rispecchia quanto visto nei precedenti capitoli: anche in questo Dark Ages le risorse sono collegate alle glory kill, ovvero le uccisioni con piccole scene non interattive che si possono eseguire alla pressione di un tasto una volta fatta scendere la vita del nemico sotto una determinata soglia e, contestualmente, velocizzate per l’occasione.

Mandare un nemico a bassa vita significa poter effettuare una glory kill, ogni glory kill permette di ricaricare parzialmente vita e munizioni, ogni boost alle risorse permette di ricominciare a respirare e a guardare le arene di gioco, stavolta decisamente più spaziose e meno arzigogolate rispetto al precedente capitolo.

Chiaramente in uno sparatutto in prima persona non è possibile prescindere da un grande numero di armi da fuoco e Doom The Dark Ages in tal senso sbalordisce il giocatore con il più grande numero di armi mai apparso all’interno della saga videoludica. Ogni arma ha il suo scopo ben preciso: il fucile al plasma è in grado di abbattere rapidamente gli scudi energetici, la doppietta (oltre a infliggere danni ciclopici) fa infiammare le armature che diventano poi vulnerabili al lancio dello scudo (perché, ripetiamolo insieme, non c’è miglior difesa che l’offesa, possibilmente continua e ultraviolenta).

L’abilità del giocatore si palesa con il passare delle quindici ore che servono per portare a termine l’avventura nel capire quali armi sono efficaci contro cosa, il tutto ottimizzando movimenti, mosse offensive e mosse difensive: superato il primo quinto del gioco, il gameplay si disvela al giocatore come un complesso gioco di scelte da bilanciare per affrontare i gruppi di nemici posti di fronte al giocatore; correre e sparare è fondamentale ma non quanto sapere come parare e verso dove muoversi, quasi in onore della dinamica spaziale che ha dominato il gameplay dei primi due storicissimi capitoli della saga.

Tutte le variazioni sul tema della violenza

Non di solo Doomslayer si menano le mani in Dark Ages e le sezioni sul drago e sul mecha Atlan ne sono una chiara dimostrazione. Se queste ultime riescono a essere piuttosto divertenti, complici una durata contenuta e un sound design che da solo vale il prezzo del gioco (voto: ASMR/10; non ci siamo mai emozionati tanto a sentire ossa frantumarsi, tessuti muscolari stracciarsi e colossi abbattersi a terra come in questo gioco), le sezioni sul drago invece fanno più storcere il naso.

Il level design in Doom The Dark Ages prevede la costruzione di livelli attraverso grandi arene parzialmente collegate tra loro in cui lo slayer si deve muovere alla ricerca della chiave o verso il raggiungimento dell’uscita; questo tipo di design assomiglia “parzialmente” a quanto storicamente fatto da CroTeam con la saga di Serious Sam e ben si adatta al gameplay di questo videogioco con però dell’esplorazione che finisce per spezzare anche troppo il ritmo, specie se si vogliono ottenere le risorse necessarie per potenziare al massimo l’arsenale dello slayer.

Il doomslayer a cavallo del drago in Doom The Dark Ages

Ecco: nei livelli in cui lo slayer si deve muovere a cavallo del proprio fidato drago semi-meccanico, il problema risulta come amplificato a causa del gameplay “poco” divertente con cui muovere l’amico alato; i nemici si devono abbattere eseguendo dei pary ben misurati e la mira non è libera, bensì è “lockata” come in un videogioco con lo z-targeting (vedi Elden Ring, per citarne uno di molto recente) lasciando al giocatore assolutamente zero opzioni offensive se non il “parrya il colpo, sovraccarica l’arma, abbatti lo scudo). In poche parole: si poteva fare meglio e durano un pelino troppo (mentre meglio quelle con l’Atlan, che durano veramente un niente).

Quello del level design è l’unico reale passo indietro fatto dal punto di vista del mero design del gioco ed è una limitazione derivante dalla rimozione delle abilità di movimento dallo slayer. Eliminata la verticalità dei livelli di Doom Eternal e scelta una composizione delle mappe ad arene, al giocatore non rimane granché da fare una volta eliminati i nemici di una zona se non aprire la mappa, controllare qualche indizio per il ritrovamento dei segreti e andare oltre, magari risolvendo i piccoli enigmi ambientali sparsi per l’arena stessa.

Purtroppo la piattezza del traversal delle arene una volta rimossi i nemici (perché, ricordiamolo, l’unica vera tecnicamente di movimento è lo scatto con scudo VERSO il nemico) è un problema che rende l’esplorazione delle mappe compassata e in grado di spezzare ulterioremente il ritmo del gioco; se a questo aggiungiamo una leggibilità non sempre eccelsa delle situazioni esplorative, vuoi per la direzione artistica dei livelli (che è meravigliosa ma a volte “astratta), vuoi per alcune scelte bizzarre degli sviluppatori, il risultato finale è un po’ peggio di come ci eravamo abituati con il capitolo precedente. L’esplorazione, quindi, rimane completamente guidata dalla necessità (e volontà) del giocatore di potenziare armi e scudo dello slayer attraverso il ritrovamento di risorse quali oro, rubini e pietre particolari, a cui poi si aggiungono i collezionabili.

Sua maestà id Tech 8

Un Atlan che si scontra con un titano demoniaco

Una volta capito che il gameplay, al netto del level design un po’ zoppo, è a livelli di quasi irraggiungibile bontà, arriviamo all’altro elemento che ci sentiamo in dovere di segnalare come “quasi di irraggiungibile bontà” ovvero l’incredibile comparto tecnico. 

Al netto di un bug presente al D1 per cui ci era impossibile raggiungere i 60 FPS mentre il gioco era a schermo intero (risolto poi con una patch), Doom: The Dark Ages è un videogioco di una bellezza esaltante dal punto di vista visivo, arrivato poi sul mercato con davvero pochi problemi (per quanto più del suo predecessore, bisogna ammetterlo). 

Graficamente il gioco ha un colpo d’occhio formidabile, complice un id Tech8 che davvero sa il fatto suo e che nativamente implementa le tecniche di ray tracing per la gestione di riflessi e illuminazione, cosa che rende le amosfere del gioco più dense e intriganti che mai. 

Il motore, inoltre, è di una fluidità incredibile anche e sopratutto nella gestione degli elementi a schermo che non hanno mai problemi di pop-in e pop-out, ai quali poi si somma una velocità veramente incredibile dei caricamenti; su un NVME qualsiasi il gioco ha tempi di caricamenti nell’ordine della manciata di secondo per qualsiasi cosa, dal game over al caricamento del livello successivo o delle cutscene; davvero incredibile.

Bellezza truculenta

Uno degli artwork uffciale di Doom The Dark Ages con lo slayer intento a maciullare demoni
Bellezza truculenta (player.it)

Doom: The Dark Ages è un prequel della trilogia di Doom 2016 e come tale ha potuto saltare a pié pari tutto quello che riguarda la fantascienza fantasy del nuovo corso in favore di un dark fantasy estremamente metallico e purulento, in una specie di melting pot tra Conan il Barbaro, Brutal Legend e le illustrazioni che tra gli anni settanta e ottanta comparivano su Heavy Metal. Il mondo dove si muove il Doom Slayer è una specie di medioevo fantastico popolato da creature pericolosissime e da popolazioni in perenne guerra tra di loro, dove la tecnologia futuristica esiste ma è al servizio della violenza: tecno castelli sforzano mecha cavalieri alti come palazzoni, per capirci. Meraviglioso, se volete sapere la nostra.

Tutto questo serve come sfondo per un comparto narrativo funzionale al percorso del Doom Slayer ma non gestito, per tempi e modalità, nel migliore dei modi. The Dark Ages, infatti, prova a fare il possibile per avere una narrazione vera e propria, con comprimari, avversari, cutscene e presentazioni di mostroni giganteschi. Tutto questo quasi un po’ stride con la non-caratterizzazione del nostro protagonista, che nel corso della sua avventura pronuncia forse un paio di parole e che si muove quasi solo per far andare avanti la trama secondo il volere del deus ex machina che per delle motivazioni in qualche maniera attinenti al suo volere; la scelta è un po’ in antitesi alla natura “moderna” della trama presentata, ma non rovina l’esperienza.

Il principe Azhrak da Doom The Dark Ages
Bellezza truculenta (player.it)

Anzi: quest’ultima, almeno dal punto di vista delle situazioni proposte, si è rivelata piuttosto sorprendente specie quando, nella seconda metà dell’avventura, ci sono alcuni momenti di grande epicità e anche scelte tanto assurde quanto alla fine memorabili. Noi preferiamo ancora il buco su Marte usato come chiave per la risoluzione dei problemi, ma qui abbia potuto dare dei cazzottoni di proporzioni cosmiche che non ci scorderemo facilmente.

Due elementi ci mancano prima di chiudere la nostra opinione su questo bellissimo videogioco, due elementi cardine del brand “moderno” di Doom: difficoltà e musiche.

La prima riceve da noi un plauso sperticato, in quanto id Software ha cesellato il suo game design con una precisione tale da lasciare al giocatore la scelta delle scelte: “fai come ti pare”.

Ogni singolo giocatore, attraverso una serie di slider, può modificare i parametri della sua partita di Doom alterando velocità di movimento, resistenza dei nemici, aggressività, quantità di risorse lasciate con le glory kill e così via. Noi abbiamo giocato la stragrande maggioranza dell’esperienza secondo le impostazioni predefinite e la difficoltà ci è sembrata bilanciata in maniera splendida, con una finestra per il parry gentile il giusto e un numero di nemici soverchiante esattamente quanto serviva per tenerci sempre con le spine intorno al collo.

Per le musiche, invece, non basterebbe un articolo altrettanto lungo per articolare correttamente un’opinione. Non sono “brutte” e anzi: appartengono sicuramente alla categoria del “compitino fatto egregiamente”, in quanto portatrici di un metal classicheggiante dalle tonalità estremamente ribassate, debitore di parte del sound di Mick Gordon senza però voler camminare sui suoi passi. 

Il problema principale, però, è che Gordon con la sua sonorizzazione di Doom aveva concesso a un particolare modo di fare metal un potere narrativo ed emotivo che, nella colonna sonora costruita dai Finishing Move, è semplicemente assente. 

Questo si deve a una somma di fattori: una certa statiticità dei timbri di chitarra usati, una costruzione delle canzoni efficace ma monotona, una povertà sonora derivante dalla voglia di attenersi agli stilemi di certo metal. Non brutto, certo, ma manco memorabile, purtroppo. Fortunatamente dal punto di vista del mero sound design e degli effetti sonori (sopratutto) siamo su livelli di capolavoro assoluto, motivo per cui manco qua ci possiamo lamentare troppo.

Conclusioni

Doom: The Dark Ages riesce a mostrare a tutta la platea quanto ancora riesca essere brava id Software a fare gli sparatutto in prima persona, anche se il level design non sempre regge e anche se perdono la gallina dalle uova d’oro alla colonna sonora. Un mondo di un fascino raro in cui farsi sommergere dall’adrenalina di essere un’inarrestabile guerriero immortale, in cui lanciare scudi e sparare all’impazzata è una combinazione di elementi della quale è difficile lamentarsi, specie se a mescolare tutto è una software house in grado di bilanciare con una precisione quasi aliena tutti (o quasi) gli elementi minimi del divertimento. Imperfetto ma comunque meraviglioso.

Voto: 8.5