Forspoken | Recensione (PS5) | Magie e stregonerie in quel di Athia

Forspoken

Di tante, forse di troppe luci e ombre si è sporcata Athia sin dalla sua primissima apparizione. Fatto capolino nella nostra dimensione nel 2020, ha cercato di splendere in virtù della sua appartenenza alla nuova generazione di console, salvo poi darsi alla macchia una, due, più volte.

Sarà stata la scia entusiasta data dall’imminente futuro dei videogiochi (quel percorso fatto di domande, dubbi, poi scoperta delle ultime piattaforme e dei relativi giochi) a parlare per me, sarà stata la curiosità che sorge spontanea all’annuncio di certe proprietà intellettuali originali: l’atmosfera del fu Project Athia accese il mio interesse. Questo nonostante fosse oscurato da un circuito comunicativo altalenante operato da Square Enix, come se – volendo per un attimo umanizzare un agglomerato di persone – non avesse mai avuto piena fiducia in esso, come se avesse avuto timore di esternare un paio di aspetti importanti, in parte esterni al gioco, verso certi fan di Final Fantasy: Luminous Productions e il quasi omonimo motore grafico.

Senza scadere in alcuna dietrologia, anche chi è fuori dalla barricata dello sviluppo potrebbe ricordare i problemi di Final Fantasy XV, anche a causa dei quali Forspoken sembra che sia stato adombrato da una magia nera.

Tanto in principio, quanto alla Milan Games Week dove era presente con una demo, il titolo in esclusiva per PC e PlayStation 5 non sembrava riuscire a bilanciare i dubbi con le buone intuizioni, rischiando di annaspare senza il salvagente di un grande nome alle sue spalle (come ad esempio è proprio quello della fantasia finale sopra citata). Il modo per sciogliere qualsiasi stregoneria è uno soltanto: lanciarsi nel regno di Athia per portare alla luce ogni suo segreto, oscuro o meno che sia.

Carte in tavola

Le premesse per un’esperienza coinvolgente e in generale per un progetto dal grande potenziale erano diverse e tutte su un tavolo in bella vista. Basti citare l’apporto in fase di concept di nomi come Gary Whitta (Rogue One: A Star Wars Story) e Amy Hennig (Uncharted, Legacy of Kain).

Ancora, si potrebbe rimarcare il supporto concesso da Sony per immaginarsi una produzione di ampie vedute. Soprattutto, quest’ultima avrebbe dovuto rappresentare la seconda occasione della succursale giapponese e del Luminous Engine, prima di prendere in considerazione il suo pensionamento.

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Le idee nella trama in sé non mancano in Forspoken e la sua uscita sul mercato ha permesso di rispolverare il termine isekai, ovvero quel filone – associato in prevalenza a manga e ad anime – nel quale uno o più personaggi fungono da anelli di congiunzione tra una realtà come la nostra e una parallela di stampo fantasy nella quale viene o vengono catapultati.

Pensate ad Alice nel Paese delle Meraviglie (volendo trovare un rimando vicino alla nostra cultura), ma senza il non compleanno, più regnanti incolleriti e un balinese al posto dello Stregatto; un modo semplice, ma efficace per familiarizzare con certe ispirazioni e con l’introduzione del gioco che rivendica una forte impronta occidentale.

La caduta da New York City ad Athia

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Chissà che Athia non sia per Frey Holland uno sfogo, una liberazione rispetto alla sua quotidianità reiterata fino al fatidico trasporto dimensionale. Le sue peripezie iniziano infatti all’interno di una tribunale per l’ennesima sequela di piccoli furti della quale si considera innocente – e non sarà l’unico tentativo di auto scagionarsi da ogni colpa; dopo avere scampato una grossa condanna, rimane vittima di un agguato da parte di una gang di strada con cui ha un conto in sospeso, ma del quale la ragazza è ben più conscia rispetto allo spettatore giocatore.

Il gruppo di malviventi arriva successivamente a lanciare il proprio messaggio in modo più plateale, incendiando l’appartamento fatiscente di Hell’s Kitchen nel quale la protagonista vive assieme al suo gatto, Homer. Scampati alla tragedia, lo sconforto è tale da farle pensare di lasciarsi cadere da un edificio, salvo essere sorpresa da un misterioso scintillio lungo il suo corpo e, di seguito, dalla vista di un bracciale dorato, il suo biglietto di andata per Athia.

Cuff, questo il nome dell’ornamento a spirale, è dotato di una propria coscienza e, avvinghiato alla ragazza di New York City, può comunicare con lei. Ne scaturisce una sorta di cliché invero piuttosto riuscito, seppure non nella sua totalità, quello del personaggio principale e del suo aiutante impegnati in un tira e molla di battute e prese di posizione l’uno contro l’altro mentre collaborano per dirimere il cataclisma di turno.

Forspoken

Nel caso di Forspoken è la Rovina – almeno così la chiama Frey – una magia oscura rea di avere eliminato o trasformato in mostri il 99% degli esseri viventi. Da reietta e prigioniera anche nella dimensione fantasy in cui è capitata, la neo ventunenne si scoprirà immune a tale male oscuro e poi la sua distruttrice predestinata, con però un’evoluzione caratteriale forzosamente accelerata che accompagna per mano una gestione singhiozzante nel modo di raccontare la trama.

Parlo del fatto che manchi un passaggio intermedio tale da mostrare la crescita di Frey da orfana di strada a eroina di un mondo intero, in accordo con il suo piglio scanzonato che a volte si fa macchiettistico. Mi riferisco alla sensazione secondo la quale nel corso dello sviluppo, nel cambio da Project Athia a Forspoken, qualcosa sia andato scartato e il materiale rimanente sia stato rattoppato alla bene e meglio: le scene animate fanno largo uso della dissolvenza a nero senza mai preparare il giocatore, mentre alcune di esse, una in particolare, palesa un montaggio delle stesse più amatoriale che epico e avventuroso.

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Il quadro della componente registica si chiude con la possibilità di saltare le singole linee di dialogo attraverso un tasto, con il rischio però di mozzare le già claudicanti scene di parola in parola. È un peccato inoltre che le espressioni facciali non rendano giustizia alle interpretazioni degli attori reali coinvolti, in particolare proprio quella di Ella Balinska.

I curricula degli autori anglofoni coinvolti non bastano insomma per assicurarsi un’impalcatura abbastanza solida, creando anzi una crepa anche fra la traccia occidentale e il marchio orientale proprio dell’andamento ritmico e delle missioni secondarie. In questo senso, volendo infine fare un confronto con altri sistemi open world, Forspoken non presenta troppe attività accessorie, però le poche presenti non spronano mai il giocatore a seguirle con foga. I punti finora spiegati appesantiscono uno dei due piatti della metaforica bilancia della produzione, dall’altro lato della quale svetta invece il gameplay.

Diva di Athia

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A farmi gustare con entusiasmo sempre vivo il comparto ludico è stata la buona dinamicità e ricchezza del gameplay negli scontri in quel di Athia; una sorpresa, in parte, dovuta al percorso di comunicazione concentrato a passare in rassegna le caratteristiche narrative. Lanciare incantesimi a destra e a manca è liberatorio, oltre a regalare un grande impatto visivo.

Esistono quattro distinti tipi di magie (di fuoco, acqua, terra, elettricità), ognuno dei quali vanta un personale ramo di poteri da sbloccare e una divisione in attacchi puri (con il dorsale destro) e di supporto (con L2). Frey può per esempio preparare uno scudo di terra che si frantumerà sulle teste degli avversari, passando a un attacco ad area di fuoco concatenato a un colpo dalla scuola acquatica.

Studiare gli elementi e gli avversari è fondamentale al fine di scatenare incantesimi devastanti, mentre una comoda ruota degli attacchi disinnesca il pericolo di un groviglio confusionario di luci. Se i nemici semplici sono troppo basilari nei loro pattern di attacco, a vivacizzare la scenografia pensano i boss, contro i quali ingaggiare scontri spettacolari e impegnativi tali da costringere a cercare la strategia migliore di magie e schivate e ancora attacchi.

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Si tratta di un amalgama che garantisce una grande varietà di approcci alle battaglie e che si sposa con la fluidità dei movimenti di Frey. Cuff ha in pratica reso magico il talento della protagonista nel parkour, consentendole ora di ottenere una schivata da record (con frame d’invincibilità solo all’inizio della relativa animazione), ora di correre leggiadra per la spoglia Athia.

Le movenze di lei e la facilità con cui è possibile scavalcare ostacoli, raggiungere tetti e altro ricorda un po’ gli ultimi Assassin’s Creed, un po’ Infamous: Second Son, per la sua energia e rapidità legata alle abilità via via acquistabili.

L’open world di Forspoken, fatto di dungeon lineari e attività brevissime per ottenere uno o un altro potenziamento, non garantisce ricompense a favore della componente ruolistica – intendendo il gusto personale di alternare set d’indumenti e strumenti per schiacciare quello o quell’altro tipo di nemico – piuttosto chiamano a raccolta chi assurge al completamento massimo del gioco. Collegando il parkour magico a questo insieme di rifugi e distese piatte, ne viene fuori uno spreco di potenziale quasi inspiegabile, vista l’opportunità mancata di strutturare il level design proprio a favore dei movimenti di Frey.

Un ultimo punto dolente che, metto le mani avanti, è comune a tantissimi giochi per motivi vari, riguarda la minima o inesistente interazione in alcune sezioni, ovvero: quando dopo una dissolvenza sono consentiti pochi passi prima di una seconda schermata nera, quando l’aggiunta di una meccanica da stealth (anche se all’acqua di rose) si trasforma nel seguire un personaggio lungo un percorso predefinito, quando eventi manovrati dal software avrebbero potuto essere a vantaggio del giocatore.

Nuova generazione o magia nera?

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Su PlayStation 5 sono disponibili tre modalità distinte: qualità, a favore della risoluzione, Ray Tracing e quella per spingere sul frame rate. Non riscontrando particolari differenze con la seconda, ho prediletto la terza alla ricerca dei 60 fps. A proposito di hardware Sony: per un’esclusiva console di questo calibro, mi sarei aspettata un supporto più impattante al DualSense, relegato all’uso del microfono per le battute di Cuff e a una leggera vibrazione.

Nonostante la Rovina abbia spazzato via lo splendore del mondo abitato, Athia offre ancora degli scorci affascinanti e in generale la direzione artistica divisa tra fantasy medievale, urban style e palette dorata fa da collante fra l’altrimenti mancata sincronia tra ispirazione occidentale e da JRPG. Una vera delusione proviene dalla musica: pure qui è stato tirato dentro un nome importante come Bear McCreary, compositore di God of War, eppure non riesce mai a tenere alta la fama di Square Enix per le colonne sonore.

Una stregoneria deve avere colpito Forspoken in principio, ed è quasi paradossale data la centralità della magia. Il fu Project Athia mise sul piatto un sistema di combattimento a base di magie e la promessa di un impianto narrativo incantevole e solido, anche in virtù dei nomi coinvolti; soprattutto, un nuovo inizio per Luminous Productions. Il gameplay carico di vari approcci da usare, rapido nei movimenti e soddisfacente nel lanciare attacchi non può accollarsi i cocci crepitanti di un incedere narrativo a singhiozzi, sincopato e infine accelerato e troncato. Chi ama sperimentare tra colpi a distanza e parkour troverà una ragion d’essere nell’esclusiva PC e PlayStation 5. Per il resto del pubblico, la scia dorata del bracciale parlante rischia di evaporare per colpe personali. Potenziale sprecato. Non una delusione, ma sì, uno smacco.

PRO

  • Sistema basato sulle magie ricco e divertente da usare
  • Movimenti basati sul parkour promossi
  • Le battaglie contro i boss sono uno spettacolo ben coreografato

CONTRO

  • La storia, per quanto interessante, è gestita in maniera insufficiente
  • Ritmo singhiozzante tanto della campagna principale, quanto soprattutto delle attività secondarie
  • Colonna sonora non all'altezza

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7

Storia - 6.3 / 10

Grafica - 7 / 10

Longevità - 7.4 / 10

Gameplay - 8 / 10

Sonoro - 6.7 / 10