Questione di prospettiva: come è cambiata la telecamera nel genere horror | #Story

com'è cambiata la visuale nei videogiochi horror

L’uscita della Gold Edition di Resident Evil: Village (qui la recensione) ha riportato in auge la discussione tra i puristi della terza persona e chi invece è contento, o semplicemente indifferente, per il nuovo corso della serie che, a eccezione dei remake, ha impiegato la prima persona negli ultimi due capitoli principali (RE VII e appunto Village), offrendo ai giocatori una nuova prospettiva in grado, tuttavia, di riportare il franchise sul vecchio percorso, quello del survival horror (con punte di action che comunque irrimediabilmente escono fuori).

Proprio nella Gold Edition è presente la Winters’ Expansion in cui sono presenti sia la terza persona per il gioco principale sia il DLC Shadows of Rose, anch’esso in terza. A molti è sembrato uno strano dietrofront quello operato da Capcom, non tanto in riferimento al contenuto aggiuntivo, ma all’implementazione della visuale in terza per un titolo che è nato per essere giocato in prima, per precisa direzione creativa. È ormai prassi, infatti, sviluppare videogiochi horror in soggettiva, cosa che ha convinto la stessa Capcom a stravolgere il concept della sua serie più famosa.

Oggi, i survival horror in terza persona esistono per omaggiare e per emulazione di un passato glorioso, basti pensare a Signalis (qui la recensione) e Tormented Souls, titoli che attingono dagli anni ’90, periodo considerato la golden age del genere horror. L’horror moderno, invece, ha abbandonato quegli stilemi e soprattutto ha adottato in modo permanente la telecamera in prima persona. Come è avvenuto questo cambiamento? Come spesso accade, tutto si trasforma in modo naturale e così è stato per i videogiochi in generale e per quelli di genere horror nello specifico, i quali non hanno fatto altro che seguire il naturale andamento dell’industria, non solo videoludica, ma anche cinematografica che ha influenzato tantissimo il videogioco come medium.

Il passaggio da 2D alle tre dimensioni

Il capostipite del genere survival horror è considerato Alone in the Dark di Infogrames, uscito su MS-DOS nel 1992, pertanto possiamo affermare che il genere abbia saltato il passaggio, obbligato per altre categorie di videogiochi, tra il 2D e le tre dimensioni. L’horror nei videogames ha avuto anni di gestazione, non si è presentato al pubblico da sala giochi e ai primi acquirenti delle console domestiche pioneristiche fin dagli anni ’80, bensì è stato “inventato” successivamente. Il titolo con protagonista il detective Edward Carnby, infatti, nasce già nell’epoca che poi diventerà la golden age del genere, quando ormai le tre dimensioni erano diventate lo standard.

Per un videogioco in 2D, difficilmente il team di sviluppo poteva avere un ventaglio di scelte per quanto riguarda la telecamera, soprattutto se parliamo di generi come il platform e il beat’em up, in cui la telecamera doveva per forza di cose mostrare il protagonista, mentre il passaggio alle tre dimensioni (e l’avanzamento tecnologico) ha totalmente eliminato qualsiasi tipo di paletto di questo tipo, basti pensare a Mirror’s Edge, un titolo interamente concepito sul parkour (quindi sul platform acrobatico), e a qualunque gioco action moderno in prima persona in cui è possibile utilizzare armi da mischia. Allora, perché il survival horror, nato con le tre dimensioni, conservò la terza persona e non partì subito con la visuale in soggettiva?

La risposta sta nella sua catalogazione: il survival horror era classificato come avventura dinamica, una definizione generalista caduta in disuso. La prima persona è stata accolta su larga scala durante l’avvento delle tre dimensioni soprattutto per sviluppare videogiochi di generi specifici che si discostavano per meccaniche e ritmo dall’avventura dinamica classica, parliamo perlopiù di sparatutto e RPG.

La prima persona ha due scopi fondamentali: aumentare l’immersione nel mondo di gioco e rendere più diretta l’azione. Nei videogiochi in terza persona, il protagonista fa da tramite tra il giocatore e l’interazione, ruolo che negli FPS è stato eliminato per dare maggiore risalto all’interdipendenza che vige tra giocatore e ambientazione (e tutto ciò che c’è al suo interno, i nemici in primo luogo). Negli sparatutto dell’epoca, l’azione frenetica e la totale assenza di tempi morti e di variazioni sul tema, circostanze causate da elementi presi da altri generi (fasi platform complesse, risoluzione di enigmi e dialoghi che negli FPS moderni abbondano) facevano sì che le meccaniche a loro ascrivibili non potessero essere in alcun modo trasposte in un genere nuovo e del tutto diverso come mood.

Per quanto riguarda gli RPG, invece, abbiamo un’immersione necessaria per rendere credibile l’universo di gioco, tuttavia anche in questo caso le dinamiche di un titolo come The Elder Scrolls: Arena (1994) erano particolarmente lontane da quelle di Alone in the Dark e Resident Evil, perché sebbene in entrambi i casi abbiamo a che fare con avventure dinamiche, l’interazione di un RPG è più complessa, è inserita in una struttura più ampia e stratificata. Il survival horror classico proponeva invece un’azione meno diretta, non dovendo portare il giocatore a interagire freneticamente nell’ambientazione, e un grado di immersione che non si basava sulla credibilità dell’universo di gioco, ma sulla trasmissione della paura. Per riuscire in quest’ultimo intento, il survival horror non utilizzava la prima persona, ma elementi che hanno rappresentato per anni il marchio di fabbrica di queste produzioni.

Horror tra prima e terza persona

Come trasmettevano paura e senso di accerchiamento i survival horror classici pur conservando la terza persona? In primo luogo, al giocatore veniva impedito di muoversi in modo preciso attraverso i tank control che rendevano l’esplorazione lenta e i combattimenti farraginosi; in secondo luogo, furono sfruttate le limitazioni hardware per garantire pathos e senso di disagio: l’apertura ricca di suspense delle porte era a tutti gli effetti un caricamento della stanza, mentre le inquadrature fisse su fondali prerenderizzati, sebbene avessero un fascino tuttora ineguagliato, erano necessarie perché la PS1 non riusciva a caricare intere aree simultaneamente.

Stessa cosa dicasi per la nebbia di Silent Hill che venne sfruttata per nascondere pop up, limiti tecnici e lasciare il tempo al sistema di caricare la mappa davanti al giocatore. Eppure, ancora oggi uno dei simboli di Silent Hill è proprio la nebbia che ha donato alla serie un fascino irresistibile. Nella serie Project Zero la terza persona permetteva di switchare in modo evidente da visuale principale a modalità fotocamera, strumento con cui era possibile fermare o uccidere i fantasmi, e soprattutto faceva risultare più imprevedibili gli attacchi degli stessi, perché i controlli in terza persona non erano appunto diretti, ma richiedevano che il giocatore muovesse il personaggio nella direzione giusta diminuendo i tempi di difesa e di gestione della fotocamera.

Come abbiamo accennato prima, questo approccio non aveva bisogno della prima persona perché si legava a caratteristiche proprie della terza persona, ad esempio un fondale prerenderizzato in soggettiva non ha senso. Quando i giochi horror provavano a cambiare telecamera diventavano altro, basti pensare a The House of the Dead (1996) che pur avendo una massiccia presenza di zombie, non era certo catalogabile come survival horror, ma come sparatutto su binari, e a Resident Evil: Survivor, anch’esso appartenente a quel genere arcade.

La terza persona ha rappresentato lo standard dei videogiochi horror fino al termine degli anni 2000 (Dead Space – 2008) e inizio del primo decennio dei suddetti anni (The Evil Within – 2014) per poi essere surclassato dai giochi in prima persona. Non sostituito, perché in terza persona sussistono esperienze come quelle offerte dai titoli più narrativi di Supermassive Games (The Dark Pictures Anthology), i remake dei classici e nuove IP come The Medium (qui la recensione) e The Callisto Protocol. Ma è indubbio che gli horror moderni siano principalmente in prima persona, tanto che la stessa Capcom ha virato in quella direzione per Resident Evil e la stessa Konami potrebbe fare lo stesso con i nuovi capitoli annunciati da poco. La software house giapponese di Metal Gear Solid probabilmente aveva già deciso di compiere questo passo qualche anno fa, non è un caso che il playable teaser di Silent Hills creato da Kojima fosse proprio in prima.

Il materiale di P.T. probabilmente non avrebbe poi visto la luce nel capitolo principale, era solo di carattere “promozionale”, però non è da escludere che Kojima avrebbe potuto sviluppare un capitolo interamente in soggettiva o con sezioni specifiche in prima persona. D’altronde, Silent Hill 4: The Room proponeva già la visuale in soggettiva durante l’esplorazione dell’appartamento 302, cosa che sconvolse i giocatori all’epoca. Proprio da P.T. è nato un filone di videogiochi horror in prima persona ambientati in case infestate: una delle caratteristiche di queste produzioni è l’incredibile realismo del setting, fattore molto importante per capire come sia avvenuto questo passaggio di telecamera.

Come abbiamo detto precedentemente, il passaggio è avvenuto in modo naturale perché se abbiamo messo come linea di demarcazione l’arco temporale che va da Dead Space (2008) a The Evil Within (2014), allora non possiamo fare finta che il passaggio non sia avvenuto anche per un avanzamento tecnologico che ha portato sia gli sviluppatori sia i giocatori a ragionare in modo diverso circa l’approccio ai videogame horror. Se prima del periodo appena citato l’immersione e la paura sono state coadiuvate da elementi di gameplay e di game design peculiari del genere, successivamente è chiaro che queste abbiano ricevuto una spinta ulteriore dal mero aspetto estetico/grafico, in grado di creare un contesto orrorifico di sicuro impatto emotivo grazie al fatto che il giocatore viene messo direttamente, ovvero senza lo scudo del corpo del protagonista, davanti a scenari e nemici dalla maggiore qualità visiva.

Inoltre, ci sono soluzioni di game design che con la prima persona sono state approfondite e migliorate e con cui l’horror moderno ormai si è fuso. Il survival horror moderno è legato principalmente alla scena indie/indie AA (studi più piccoli ma con publisher alle spalle) e vede impegnati a diffondere questo nuovo corso team ormai sulla bocca di tutti gli appassionati del genere: gli svedesi Frictional Games (Amnesia, Soma), il polacco Bloober Team (Layers of Fear, Observer) che lavorerà al remake di Silent Hill 2 e i canadesi Red Barrels (Outlast). Gli elementi fondanti delle loro produzioni sono la fuga e il senso di disorientamento.

I personaggi di Amnesia e Outlast non possono difendersi, hanno come unica via di scampo la fuga e così il giocatore si ritrova a correre e nascondersi per la maggior parte dell’esperienza con una visuale in prima persona a enfatizzare sia le sezioni di inseguimento sia quelle in cui si rimane chiusi in un armadietto o luoghi simili in attesa che il pericolo passi. Nelle opere di Bloober Team, invece, è il senso di smarrimento a farla da padrona, infatti i giochi dello studio polacco sono definiti psichedelici perché basati su dinamiche che hanno il chiaro intento di disorientare e confondere il giocatore (corridoi che spariscono, stanze che cambiano il proprio aspetto in base alla prospettiva, etc). Soprattutto quest’ultimo modo di fare horror è particolarmente adatto alla prima persona perché ha bisogno di un contatto visivo diretto tra il giocatore e ciò che avviene su schermo.

Per approfondire, leggete i due speciali dedicati a Bloober Team (ADevStory Parte IADevStory Parte II).

La prima persona, dunque, ha preso il sopravvento perché è cambiato il modo di concepire l’horror nei videogiochi e per favorire approcci che in passato risultavano pesanti e poco dinamici (e proprio per quello riuscivano a incutere timore in terza persona), infatti, la fuga da un nemico non è stata inventata di recente. Durante la sesta generazione, sono fioccati i titoli con nemici stalker da evitare o con protagonisti inermi: Rule of Rose (2006) e Haunting Ground (2005) sono solo due esempi, i quali hanno tratto ispirazione da Clock Tower (1995). Oggi, le stesse dinamiche appaiono maggiormente fluide e approfondite, anche se la maggiore fluidità per taluni si configura come forte diminuzione dell’effetto paura perché, come abbiamo detto, i controlli imprecisi e lenti spesso aiutavano la tensione.

E se è vero che questo passaggio da terza a prima persona ha seguito un percorso naturale, è ancora più naturale che lo abbia fatto quasi in concomitanza con un’altra espressione artistica a cui si è indissolubilmente legata negli anni: il cinema.

La prima persona tra cinema e videogioco

Il falso documentario, cioè un film nel quale eventi di fantasia sono presentati come se fossero reali attraverso l’artificio di un linguaggio documentaristico, ha favorito tantissimo la diffusione del videogioco in prima persona e questo è un percorso naturalissimo visto che le arti e i mezzi di comunicazione si influenzano tra di loro continuamente attraverso le tendenze. Basti pensare al boom che ha fatto su YouTube la categoria “crime”, cioè di canali che parlano di eventi misteriosi, occulti e fatti di cronaca (L’Inspiegabile. Fiamma di Prometeo, Elisa True Crime). Questo interesse morboso è la conseguenza del bombardamento mediatico che la televisione opera sbattendoci in faccia mostri e vittime in programmi che hanno sempre di più i connotati di un processo.

Altro fenomeno della rete è quello delle urbex, le esplorazioni urbane in cui armati di telecamera ci si inoltra in luoghi abbandonati come ospedali psichiatrici e ville “infestate”. Questo è nato per emulazione di uno dei film più importanti per il genere horror, The Blair Witch Project (1999). L’opera di Daniel Myrick ed Eduardo Sánchez ha creato un filone che ha letteralmente dettato legge nella produzione di film horror alla fine degli anni ’90 e nel primo decennio degli anni 2000. Sempre più registi hanno cercato di incutere timore nello spettatore instillando il dubbio che ciò che veniva mostrato al cinema fosse reale, che quelle persone non fossero attori, ma protagonisti di avvistamenti, incontri paranormali e avventure angoscianti in luoghi da incubo.

Le stesse case di produzione giocavano con il dubbio dello spettatore attraverso campagne marketing un po’ ingannevoli, ad esempio quella di Paranormal Activity (2007) rimase spesso e volentieri sul vago per accrescere la curiosità degli utenti. Questo stile cinematografico ha avuto proseliti illustri, infatti nel 2008 uscì nelle sale Diary of the Dead del maestro George A. Romero. Non certo uno dei suoi migliori film, ma ci dice molto su quanto il falso documentario fosse diventato uno stile ricercatissimo.

Della stessa categoria fanno parte i found footage, ovvero film che usano l’espediente narrativo del filmato ritrovato, una delle opere più interessanti di questo tipo è Frankenstein’s Army, che ha ispirato Capcom nella realizzazione dei nemici nella fabbrica di Karl Heisenberg. Il found footage è stato utilizzato dalla stessa azienda giapponese in Resident Evil VII per giustificare il ritrovamento di materiale audiovisivo presso la casa dei Baker.

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Se anche la cinematografia, in quanto arte passiva in cui il fruitore non compie alcuna azione, ha sfruttato le potenzialità della prima persona per immedesimare e far sentire maggiormente in pericolo lo spettatore, è naturale che il videogioco, già di per sé arte attiva/performativa dal punto di vista del fruitore, il quale ha pieno controllo di ciò che avviene davanti ai suoi occhi, abbia trovato nella telecamera in prima persona un’occasione perfetta per estendere le possibilità narrative e ludiche del genere horror.