Path of Exile: il freemium che vince sempre

copertina articolo Path of Exile

Arrivato su PC e Xbox One, Path of Exile è un rpg free to play che propone una formula molto vicina a quelle di classici come Diablo, in giro ormai da qualche anno: la versione PC, infatti, è arrivata quasi in sordina nel 2013 e nel 2017 su console, raggruppando attorno a sé una community abbastanza agguerrita. Un’operazione a tutti gli  effetti “di nicchia”, come molte altre simili, che ha visto di recente l’uscita di un’update comprendente una modalità difesa della torre, Blight, e che riconferma tanti presupposti e idee su quale può essere la formula perfetta per un free-to-play di successo.

Andiamo a vedere di che si tratta.

Una screen di Path of Exile
Una screen di Path of Exile: più la guardate e più potete sentire il rumore dei colpi sull’armatura!

Nel segno dei classici

Per parlare di cosa trattino Path of Exile e le sue espansioni non serve molto tempo, soprattutto se siete giocatori un po’ anziani e avete una certa esperienza nel campo dell’rpg tattico con un po’ di venature hack n slash tipicamente anni ’90 (okay sì: stiamo parlando di nuovo di Diablo!): come in ogni avventura di questo genere, in PoE dobbiamo creare il nostro pg e personalizzarlo prima di lanciarci alla scoperta e alla conquista del mondo di gioco, un’isola dall’aspetto deliziosamente dark fantasy da esplorare e ricca di mostroni da abbattere.

Una formula semplicissima, che sembra però aver avuto effetto (come c’era da aspettarsi).

Dal lancio del gioco a oggi il gioco ha avuto sei espansioni e, come dimostra Blight, costanti aggiornamenti, rendendo vincente la formula di business pensata dal team di sviluppo, basata su quelle che sono state indicate come micro-transazioni etiche: gli sviluppatori hanno previsto di far cassa attraverso l’acquisto di oggetti e di vestiario in game, allontanando il rischio di pay-to-win.

Un elemento di trasparenza che senza dubbio sembra aver fatto segnare un punto agli sviluppatori. Il genere sembra aver fatto il resto.

Una screen dell'espansione War for the Atlas di Path fo Exile

Free-to-play: squadra che vince non si cambia

L’intero progetto portato avanti dal team viene finanziato mediante le microtransazioni di cui parlavamo sopra, che dunque vanno a costituire un elemento centrale per la sua sopravvivenza.

Non ci stupiamo, dunque, del fatto che i programmatori tengano a sottolineare quanto l’esborso di denaro richiesto non sia pay-to-win, ma qualcosa di fortemente opzionale e “laterale” al core del gioco: come biasimarli, in tempi di forte tensione legata a questo tema?

Se già questo sembra voler rassicurare i giocatori, a incoronare PoE come successo e a costituire il vero punto della questione sembra essere il modo in cui un gioco del genere, “commerciale” (nonostante l’etica) è però il suo voler ripoporre a un largo pubblico una genere e una modalità di gioco dall storia e dal prestigio ormai confermati. Insomma, prendere qualcosa che funziona, con un’alta percentuale di possibilità di vittoria, e usarlo come ingrediente per un’operazione commerciale che punta a un difficile equilibrio fra qualità e quantità.

Non è una strategia inedita per l’industria dell’intrattenimento: da sempre infatti sia l’editoria che il cinema hanno preso di peso componenti dei classici “alti” per riciclarli in operazioni più “basse” ma basate su formati maggiormente popolari ed economici, e di sicuro Path of Exile non è il primo videogioco a farlo. Dagli strategici agli rpg, tutti i generi del videogioco applicati al free-to-play hanno sfruttato meccaniche e atmsofere di titoli blasonati per far fortuna, riuscendoci fin dall’epoca del boom di videogiochi di fascia media spacciati in edizioni low-budget, pensati per esempio per essere venduti in edicola, allegati alle riviste (ricordate le prime edizioni di Sacred, prima che diventasse un semi-must?).

E se queste politiche avessero avuto delle conseguenze indirette?

 

Un'altra scena di Path of Exile

Strizzare l’occhio, vincere facile

La domanda che ci facciamo a questo punto è: il free-to-play potrà, nella sua veste di formato portato a rielaborare in chiave moderna le vecchie glorie videoludiche, funzionare come una sorta di strumento di conservazione della memoria ludica in uno scenario che sembra cambiare sempre più velocemente e condannare all’oblio generi ritenuti obsoleti?

La velocità dell’evoluzione del videogioco (non solo tripla A) verso un costante perfezionamento grafico e di meccaniche porta l’industria a trasformarsi e abbracciare nuovi formati espressivi, facendo sì che alcuni tipi di giochi cadano nel dimenticatoio e scompaiano. Un esempio? Le avventure grafiche, ormai spesso sorpassate dallo story-driven e altri generi analoghi, e che oggi resistono solo in alcuni sparuti esempi di “resistenza al progresso”.

Un processo del tutto naturale, che porta a trasformazioni inevitabili, ma che genera anche la situazione paradossale di perdere i giocatori più anziani e per questo affezionati a tipologie di videogioco più “storiche”. Il free-to-play, modalità di gioco che abbraccia tanto i giocatori esperti quanto, a volte, gli occasionali, potrebbe averlo capito, riproponendo vecchie formule per creare un proprio pubblico facendo leva sulla nostalgia.

Che sia la strada per mantenere una certa varietà all’interno di contesti commerciali sempre più standardizzati e poco inclini a proporre titoli “vecchio stile”, persi come sono nella rincorsa alla novità?

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