I nostri videogiochi sono davvero nostri?

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Il mondo del digitale è un mondo tanto ricco di possibilità quanto strano. Negli ultimi quindici anni, la dematerializzazione di beni che credevamo ancorati al loro supporto fisso, dalla musica ai film, passando per i nostri dati personali e per i videogiochi ha dato la possibilità di una maggior possibilità di godere del loro utilizzo: per esempio, il download da uno store digitale può permetterci di andare in vacanza portandoci la nostra console preferita senza dover caricare la valigia di confezioni di titoli preferiti. Le cose che amiamo possono essere sempre con  noi, in ogni momento, pur non esistendo fisicamente, anzi forse il fatto di poterle portare con noi le rende ancora più “presenti“. E’ quello che probabilmente credevano gli utenti del portale Microsoft dedicato alla distribuzione di ebook, che hanno visto il circuito chiudere e i titoli acquistati attraverso di esso destinati a essere eliminati per sempre dai dispositivi che li ospitavano (pur essendo previsto un rimborso).

La domanda è: e se accadesse con Epic Games o Steam (a proposito, sentito già questa notizia?)?

Il caso: la chiusura dello store Microsoft

Parliamo, per un momento, di libri digitali, tenendo presente che a livello merceologico l’ebook non è un prodotto molto diverso dal videogioco scaricabile: entrambi non sono altro che insiemi di dati organizzati fruibili attraverso software e device, sia quest’ultimo il nostro e-reader o la nostra Switch.

Si acquistano in digitale, si fa un download, si fruisce di essi. Ogni anno gli amanti di libri, videogiochi, film, musica, accumulano file su file all’interno dei loro dispositivi attraverso alcuni semplici click. Il problema, come purtroppo si sono accorti i molti utenti rimasti beffati dal caso Microsoft come da quello di molti altri store digitali chiusi all’improvviso, è che potenzialmente ognuno di questi file scaricati legalmente non costituiscono “acquisti in toto”, quanto piuttosto cessioni di diritti di utilizzi di file protetti da DRM (digital rights management), ovvero raffinati sistemi tecnologici interni ai file acquistati, che hanno l’obiettivo di tutelare il videogioco/brano musicale/film/libro dai tentativi di copia non autorizzata e da altri usi impropri.

Di fatto, comprando una merce digitale, l’utente fa una sorta di contratto con il distributore dell’opera: “Io lo uso, ma devo rispettare una serie di regole“. Immaginiamo il DRM come una sorta di “spia” del distributore all’interno della copia scaricata, con l’obiettivo costante di vigilare sull’utilizzo. Potremmo aprire un capitolo intero sulle mille critiche sorte nel corso degli anni attorno all’utilizzo del mezzo, ma è meglio concentrarsi su un particolare risvolto negativo della faccenda. Quando Microsoft, negli scorsi mesi, ha comunicato alla sua clientela che la sua divisione ebook sarebbe stata chiusa, ha dovuto ammettere anche che il DRM dei suoi libri digitali avrebbe innescato una specie di “autodistruzione” volta a rendere inutilizzabili i libri dopo la fine delle attività di commercializzazione.

Insomma: muoia Sansone con tutti i Filistei, i singoli file non possono essere utilizzati se non attraverso la validazione del programma che ne ha permesso lo scaricamento.

Benvenuti in Epic Store!

Appesi a un filo

Il caso di cui abbiamo parlato mette in chiaro quanto il concetto di “proprietà” di un qualsiasi prodotto digitale sottoposti a DRM sia in realtà più che discutibile. Nei nostri device abbiamo niente più che “license acquistate”, di cui i distributori potrebbero disporre come meglio credono.

Esistono diversi tipi di DRM, ovviamente: in Epic Store, lanciato alla fine dello scorso anno, per esempio, funzionamenti più stringenti della misura riguardano solo alcuni titoli e ne lasciano altri pressoché intoccati, permettendo per esempio di utilizzare il software accedervi dal programma dedicato, e ciò lascerebbe anche sperare che non tutti i titoli nel database possano correre il rischio di un’ipotetica chiusura di EGS, almeno in linea teorica.

Veniamo a una domanda cruciale, però: quand’è e perché uno store digitale potrebbe chiudere o rinunciare a continuare la sua mission, decretando anche la “morte” dei nostri giochi scaricati? Nel caso di Microsoft, continuando con il parallelo con lo store dei digitali, la chiusura del settore inaugurato nel 2017 è coincisa con la presa di coscienza del colosso del poco successo dell’iniziativa. Certo Steam ed Epic Store non sembrano affetti da problemi di scarsa attrattiva e certo al momento non dobbiamo preoccuparci, ma occorre avere chiaro che, al momento, il “possesso” di titoli acquistati da parte di una buona fetta di utenti potrebbe dipendere dal successo delle compagnie di distribuzione.

Se loro non vanno, l’acquisto del loro gioco svanisce.

Puff.

Casi recenti

I timori legati a un possibile “caso Microsoft” nel mondo videoludico non sono, purtroppo, basati su semplici speculazioni retoriche.

Wii Shop, storico canale di acquisto digitale della console nipponica, sta subendo la stessa sorte in questi mesi: dopo oltre dieci anni di onorato servizio, l’e-store è stato destinato allo smantellamento, non permettendo più ai giocatori l’accesso ai prodotti scaricati a meno che non siano stati materialmente stipati all’interno della memoria dei singoli dispositivi in loro possesso.

Stessa sorte è toccata a Xbox Fitness, chiusa nel corso del 2017 e i cui contenuti acquistati hanno seguito un destino analogo a quello degli ebook Microsoft.

Steam
E anche Steam vuole la sua parte!

Concludendo (semmai fosse possibile)

Sia chiaro: nessuno si sognerebbe mai di demonizzare in toto il funzionamento degli store digitali, né di pensare che possano esserci altri modi, realistici, per trattare la questione. In fondo i casi che abbiamo analizzato sono del tutto legittimi sotto il punto di vista dei complessi regolamenti dei diritti d’autore, e le grandi major hanno senza dubbio motivi vantaggiosi per continuare a tenere certe linee.

Infine, c’è da dire che al momento la natura di questo genere di canali d’acquisto non può che favorire ancora questo tipo di pratiche, condannandoci a una sorta di “schiavitù” dal DRM e dalle politiche dei publisher.

Dovremmo rivalutare allora le famose copie materiali, che ancora abbondano nelle camerette e sale di tanti gamers, e costringerci a una sorta di rifiuto alla pratica dell’acquisto digitale? Impossibile, a meno che non decidessimo di tagliarci fuori da intere fette di mercato. Troppi, per esempio, sono i publisher indipendenti che hanno trovato nel digitale la strada giusta per diffondere i propri lavori.

Che lo vogliamo oppure no, la distribuzione digitale è diventata una costante del nostro modo di rapportarci con la tecnologia. Siamo dunque destinati a vedere i nostri giochi “schiavi” dei capricci dei loro editori?

Almeno sino a qualche mutamento nel modello produttivo e distributivo, in grado di scongiurare casi come quelli descritti oggi, per quanto non ci piaccia, per quanto possiamo vederla male, la risposta potrebbe essere un terribile, sibilante, snervante, semplice .

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