Diario del dott. Flammini 13 Novembre 1957 – Parte I

Diario del dott. Flammini 13 Novembre 1957 - Parte I

Diario del dott. Flammini 13 Novembre 1957 – Parte I

Sono passati un po’ di giorni, due a giudicare dall’ultima volta che ho scritto.
Sta succedendo qualcosa qui a Torino.

L’altro giorno sono arrivati dei militari in città. Cozzano davvero con l’ambiente circostante. Le loro divise bluastre sovrastate da quella enorme croce sul petto mi mettono i brividi, stridono fortemente con l’ambiente.

Non portano gradi ne mostrine indosso, niente. Solo ornamenti sacri e santini cuciti ovunque, ma non sono quelli con più figurine a sembrare i peggiori. Sono quelli vestiti di nero a mettermi i brividi: lunghi disegni di croci bianche corrono lungo le maniche e quegli zaini, enormi, che mano mano posavano come scendevano dal loro camion scoperto. Un residuato bellico anche quello, ben tenuto, non c’è che dire.

Quando scesi in piazza, qui davanti, stavano già allestendo un campo base in piena regola: radio, mezzi militari e ben due carri armati, no, non armati, non è corretto definirli come tali, trinciascheletri penso li abbiano definiti.

Beh insomma, ne saranno una cinquantina o forse più e insieme a loro anche dei preti, belli, lindi e pinti, armati anch’essi. Abiti monacali sovrastati da bombe a mano e fucili, l’elmetto ben calzato in testa: pronti a fare la guerra già, ma contro chi mi domando.

Tutto questo è folle, se credevo di star finalmente abituandomi alle stranezze di questo luogo devo dire che il Sanctum Imperium sa come tenere alta la mia soglia dell’attenzione. E’ per me impensabile che preti, armati, si muovano su mezzi militari affiancandosi a pazzi esagitati che si accendono sigarette con i loro lanciafiamme per farsi i bulli con le ragazze.
Non so cosa stia per succedere ma sono certo non sia nulla di buono….

Inoltre ieri è giunta la notizia: mi si è avvicinato un uomo imponente, avrà avuto una quarantina di anni o giù di li, dai capelli brizzolati e lo sguardo fiero e vincente stampato in volto. Mi ha intimato di seguirlo, che saremmo andati a parlare con il Gran Maestro Renato, che era giunto qui questa quella mattina.
Ebbene non ho potuto far altro che seguirlo. D’altronde che avrei dovuto fare, scappare? No di certo…

I corridoi della Rocca sembravano infiniti, non ho mai sentito cosi freddo, la temperatura scese drasticamente e più scendeva, più noi percorrevamo scale verso il basso. Giù in profondità al centro della terra, pensai.

Una immensa stanza circolare ci attendeva; a presidiarla due enormi uomini ammantati da un candido abito crociato. Due elmi con rifiniture d’oro ne coprivano il loro volto. Maestosi. Alle loro spalle due ali metalliche si incastravano sugli spallacci dell’armatura. Quegli elmi scolpiti quali fattezze umane sormontate da una corona di spine non facevano altro che inquietare chiunque si soffermasse ad osservare. Ma ciò che li rendeva grotteschi erano le armi che impugnavano: immensi blocchi di metallo finemente decorati da scritte in latino e una cinghia a motore posta intorno ad esse. Una impugnatura troppo grande per essere impugnata da un comune uomo: motoseghe votate a Dio.
Angeli armati di ritrovati della tecnica per una loro guerra contro l’Abominio.

Una seconda stanza contigua alla prima assolutamente identica rendeva l’ambiente a forma di 8. Drappi rossi l’addobbavano e di fianco a questi altrettanti stendardi di nero e di bianco e al centro un uomo illuminato fiocamente da un mesto camino. Lungo le pareti correvano immagini che intuii rappresentare la battaglia nella Piana di Armageddon.
Sul mesto camino trovava alloggio un arma simile a quelle imbracciate dai due angeli di ferro sebbene più piccola. Un posto d’onore per quella che forse è una reliquia a me sconosciuta.

Venni introdotto a colui che mi attendeva e il suo sorriso scomparve al vedermi. Un sussurro rivolto al mio accompagnatore : “Fratello Amos, chi è costui“.
Il templare al mio fianco rimase e rispose “costui e Fratello Raimondo da Ravenna, giunto due settimane fa a Torino per aggiungersi alla nostra sacra impresa.

Attimi di silenzio e paura. Confusione. Non capivo. Amos?
Ma… io avevo parla con Amos giorni prima, non l’individuo al mio fianco. Dove sono i suoi capelli biondi?
Rimasi in silenzio, sperando di ricevere quantomeno spiegazioni per quel delirio che si generava nella mia mente.
Renato fece alcuni passi verso di me e con tono freddo e cupo chiese “chi sei tu?“. Solo allora notai il suo occhio privo di vita, morto.

Mi inginocchiai terrorizzato al suo cospetto e osai solo chiedere pietà, di non uccidermi, che in realtà mi chiamavo Mauro ed ero un dottore di Roma. Le parole fuoriuscirono come un fiume dalla mia bocca e continuai: “non so perché sono qui. Ero in viaggio per Vienna. I mio aereo e precipitato su Ravenna. Raimondo mi ha trovato e ha concordato con il Maestro Paolo di inviarmi qui a Torino per proteggermi e indagare su di me“.

Renato non disse nulla. Stoico, rimase immobile con le mani poste dietro la schiena.
Solo dopo un eternità si pronunciò. “Dov’è Raimondo?“. “Lui…lui si è trasformato…ci ha dato la caccia per due giorni…è uno di loro: è morto…” singhiozzai.

Spiegai quanto avvenuto a quello che avevo capito essere il vero Amos – avevo troppa paura di guardare Renato  e dissi di aver letto impunemente una lettera pensando mi riguardasse e cosi di esser entrato in conoscenza di quanto si apprestavano a fare.

Renato parve riflettere e poi, con un urlo, richiamò gli uomini nell’altra stanza che prontamente accorsero. Un rumore assordante, il forte rimbombo di quelle armi in quella stanza chiusa gravò nelle mie orecchie ed una sensazione di deja vu si impossessò di me. Svenni, o meglio, mi addormentai e sognai….

Sognai una foresta e ancora un forte rumore di metallo alle mie spalle. Io correvo, ero inseguito da qualcosa. Raimondo mi dava la caccia e io fuggivo dalla sua fame.
Corsi a perdifiato e inciampai in una radice; caddi con la faccia nel fango e sentii come un esplosione. Di fronte a me una immensa torre di metallo era in fiamme.
Scappavo tra i vicoli di una città ma dietro di me vi era ancora la boscaglia e quel rumore. Il suo ghigno si manifestò da dietro il suo elmo dilaniato. Ripresi a correre e cercai di raggiungere la torre e le sue scale. Rumori di spari, esplosioni e urla riempivano l’aria. Palazzi crollavano, inondando tutto di fuoco e disperazione.
In lontananza percepivo la presenza di un feroce branco di lupi che correvano lungo i boulevard, lupi con la faccia da uomini. E poi vidi il diavolo: una figura antropomorfa fluttuante a mezz’aria dalle vaghe fattezze demoniache con indosso una divisa del Reich. In basso Raimondo cercava di raggiungermi, aggrappandosi a grate che si muovevano da sole per favorirgli la risalita. E poi risate tutte erano intorno me, ma non vere bensì radicate nella mia testa e impossibili da ignorare.
Raggiunsi la cima e qui trovai Amos intento a combattere contro un altro uomo in divisa: biondo e bello. Ariano. Entrambi brandivano delle spade mentre tutti noi volteggiava un enorme uccello di metallo, una maestosa aquila che solcava i cieli…. e qui vidi chiaramente come facesse cadere il uovo di morte, prodigio della scienza, su tutti noi. Luce, tanta luce. Tanto dolore. Tanta morte!

E poi eccomi qui, in un bagno di sudore, nella mia stanza, intento a trascrivere il mio delirio.

<-Capitolo XXXICapitolo XXXIII->

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