Il coraggio dei tie-in cinematografici per Game Boy

C’è stato un tempo in cui gli scaffali dei negozi tremavano sotto al peso di videogiochi tratti da film, serie tv, addirittura programmi televisivi. Gli anni ’80 e ’90 sono stati in questo senso devastanti: l’era del merchandise ad ogni costo è stata capace di generare crossover anche mostruosi pur di alzare due spicci in più con un brand, e il trend era che se qualcosa si muovesse sullo schermo di un cinema o di un televisore, allora sarebbe dovuto arrivare anche su un sistema di gaming.

Se puoi guardarlo, puoi giocarlo

Oggi la formula film+videogioco=spazzatura è stata superata, e sono molti i titoli di spessore che provengono da lungometraggi o tv show: escludendo i vari Batman di Rocksteady Studios, Marvel’s Spider-Man e simili – che rientrano in una categoria a parte –, possiamo menzionare i giochi dedicati a South Park, i Jurassic World Evolution, l’apprezzatissimo Alien Isolation, per dirne qualcuno. In passato questo genere di produzioni superava raramente la sufficienza qualitativa, con risultati che potevano raggiungere picchi di tristezza che, a ripensarci, noi gamer non meritavamo.

Una sala di 66 millimetri

Torniamo ai tie-in del passato, e facciamo entrare nel discorso quella che considero la più grande console mai creata: il Game Boy di Nintendo.

Partiamo da un presupposto: qual è l’obiettivo della riproposizione di un film sotto forma di videogioco? Sicuramente quello di far rivivere le atmosfere, la storia del materiale di partenza. Bene: si capisce come questo implicasse, nell’era 8 e 16-bit, una certa difficoltà tecnica.

Ma i videogiocatori cresciuti durante lo scorso millennio erano più abituati a utilizzare uno strumento per modellare e completare ciò che appariva sullo schermo, vale a dire la fantasia.

Solo così era possibile visualizzare come concreti e vivi elementi di design altrimenti ascrivibili allo stile dell’arte preistorica, accozzaglie di pixel spiattellate sul monitor che trovavano una fondamentale alleata nella palette di colori.

Lo stesso accadeva con la storia, e le quattro chiacchiere di dialogo inserite nella cartuccia dovevano essere mescolate a quanto scritto nei libretti di istruzioni e alla capacità di storytelling del giocatore. Una modalità di interazione forse più attiva, più creativa.

Va da sé che sulla console portatile Nintendo tutto diventasse ancora più spartano. Le tonalità di colore erano limitate al verde (o al grigio della versione Pocket), e i pulsanti di comando oltre alla croce direzionale erano due: con tale striminzito materiale di partenza la speranza di ricreare ciò che veniva proiettato in sala cinematografica o trasmesso in tv diventava a dir poco velleitaria.

Ciononostante, il Ragazzo Gioco continuava testardo a far girare quelli che spesso erano blockbuster, con risultati altalenanti che oggi ai nostri occhi abituati al 4K risultano quasi risibili, ma anche affascinanti, incredibili, irripetibili. Fermo restando che una buona idea è capace di far superare qualsiasi limite tecnico.

Palinsesto pazzesco

Tie-in è un termine ambiguo, che custodisce al suo interno un’anima oscura: se alla lettera esprime un legame, è nel linguaggio economico che rivela la sua verità, dove intende un prodotto venduto in abbinamento a un altro. Ciò implica un collegamento non artistico, non di intenzioni, ma relativo al profitto.

E quindi via col videogioco di qualsiasi prodotto di intrattenimento video fosse stato pubblicato a partire dal 1989: ovviamente The Addams Family, immancabilmente i Simpson (ben 5 i titoli dedicati agli abitanti di Springfield), ma anche scelte sorprendenti – per non dire incomprensibili – come il gioco tratto dal Dracula di Bram Stoker, pellicola uscita nel 1992 per la regia del maestro Francis Ford Coppola.

In apertura ho menzionato Alien e il franchise non mancava su Game Boy, Alien 3 e Alien vs Predator, quest’ultimo però in anticipo di 11 anni rispetto alla controparte cinematografica (esatto, quella con Raoul Bova).

Anche l’iconico thriller fantascientifico di James Cameron vanta due adattamenti: all’apprezzato sparatutto a scorrimento orizzontale Terminator 2: Judgment Day, seguì T2: The Arcade Game, che rappresenta appieno il tema di questo articolo: altro non era che il porting su portatile 8-bit del cabinato, il quale era un light gun shooter, vale a dire una di quelle postazioni con le pistole in plasticona; e lo hanno portato su Game Boy, due pulsanti e una croce direzionale. Impossible is nothing? Non proprio, però devo ammettere che dopo aver rivisto Terminator 2 un po’ di tempo fa, un paio di partite sono tornato a farmele.

Erano appunto gli anni dei sequel numerati, lo sciorinamento in ordine aritmetico dei diversi momenti di un’opera almeno teoricamente artistica [la poesia delle logiche di mercato], ergo anche su Game Boy s’affollavano Ghostbuster II, Gremlins 2, Home Alone 2: Lost In New York, Jurassic Park Part II, Robocop 2 et cetera, perché du is megl che uan, per non parlare dei 3, dei 4 e degli altri.

I film da cui trarre un gameplay potevano essere freschi di movie theater ma anche recuperi di pellicole di successo del passato. Ad esempio, per questo articolo ho rigiocato Star Wars: The Empire Strikes Back, trasposizione del secondo film della saga creata da Lucas, targato 1980. Ma ho anche recuperato Toy Story del 1995, un obbrobrio scandalosamente scadente che nulla aveva da spartire con l’indimenticabile lungometraggio Pixar dello stesso anno.

Il pensiero alla base di alcuni di questi lavori era fenomenale, onirico, a volte senza Dio, sotto il dettame di un unico imperioso comandamento: si può sviluppare un videogioco partendo da qualsiasi prodotto video. Qualsiasi.

C’era il gioco di Wayne’s World, commedia musicale con Mike Myers, quello di Caccia ad ottobre rosso (ma perché?), fino ad arrivare a mosse assolutamente inconsulte come Un indien dans la ville, tratto da una commedia francese poco apprezzata dalla critica, senza pensare di poter dimenticare The Incredible Crash Dummies, tratto da una pubblicità progresso.

Ciò era possibile perché il sopracitato comandamento aveva a disposizione un rituale speciale, tra gli altri, un rituale universale: il platform/adventure a scorrimento orizzontale. Thriller politico? Programma televisivo? Commedia bislacca? Niente paura, fate procedere un personaggio qualsiasi verso la destra dello schermo, saltando di tanto in tanto, e il gioco è fatto – in tutti i sensi.

“Qualità o morte”

Questo excursus nei tie-in di qualche decennio fa mette rilievo il diverso status di cui gode il videogioco nel nuovo millennio e soprattutto dall’ultimo decennio, un prestigio mondiale tanto nel mercato quanto nell’opinione pubblica, al punto da far accadere il contrario: da Cuphead a The Last Of Us, sono ora i videogiochi a ispirare la settima arte o i palinsesti streaming.

Non è che la punta dell’iceberg: dai musei ai libri alla musica in chiptune, il videogioco è ora riconosciuto non solo tra i media più rappresentativi di quest’epoca del genere umano, ma come fonte d’ispirazione artistica. È per questo che un porting realizzato con le logiche esposte nei paragrafi precedenti risulterebbe oggi inaccettabile se non proprio offensivo verso la sensibilità di un fruitore nel quale è radicata la percezione del gaming come prodotto d’avanguardia e d’uso quotidiano.

Si richiede solo una cosa: un’idea. Che sia folle, divertente, un’idea che generi altre idee, che ci tenga incollati al joypad a immaginare. Questa idea può venire da una serie tv o da un film, certo, a patto che sia sviluppata con sapienza. I videogiochi non sono più un riempitivo, sono il contenitore, è evidente.

Poi, se qualcuno volesse cimentarsi nella trasposizione videoludica di Boris o The Irishman, sarò ben felice di fare il mio dovere editoriale.