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Recensioni

La nostra recensione di Citizen Pain, l’action in prima persona sviluppato da un singolo italiano

La nostra recensione di Citizen Pain, l’action in prima persona sviluppato da una singola persona: l’italiano Alessandro Capriolo.

L’industria videoludica italiana non sarà forse la più florida e non si potrà forse dire che stia vivendo il suo prime, ma è sicuramente in ascesa e i progetti interessanti iniziano a fioccare. Come precisavo nella recensione di Lost Soul Aside (che italiano non è, non confondiamoci), quando si parla di videogiochi, come di qualsiasi altro medium artistico, ciò che colpisce ancor prima del titolo in sé, è la storia che vi sta dietro.

E citare Lost Soul Aside, non è una casualità: proprio come il gioco che andremo a trattare oggi – il nostrano Citizen Pain – il gioco cinese era sviluppato da un singolo sviluppatore, con la differenza che a un certo punto è subentrata Sony influendo su un aspetto cruciale del gioco: il prezzo. In questo caso invece, l’italiano Alessandro Capriolo, che in un team affiliato a Sony (Nixxes) ci lavora, dal colosso giapponese non ha avuto alcun aiuto e tutto quello che c’è dentro Citizen Pain è farina del suo sacco.

E questa è la storia, il momento che arriva ancora prima di aprire per la prima volta il gioco: una storia di volontà, di voglia di fare, di muovere importanti passi in un mercato incerto, investendo tantissimo di tasca propria (in termini non solo di denaro ma anche di tempo). Poi però bisogna avviare il gioco e una volta che ciò accade, diventa necessario iniziare a dare a quel sogno del singolo, la dignità che un prodotto del genere può avere.

Dare dignità a un prodotto, in altre parole, significa non fare differenze di trattamento. Sono entusiasta che un italiano si sia lanciato in un progetto del genere, un progetto ambizioso che può rappresentare un primo approccio al game design e che può puntare a diventare qualcosa di più. Come già fatto in passato per la recensione di Enotria però, in questa sede non ci sarà nazionalità che tenga, men che meno storia. Cercherò di raccontarvi cos’è Citizen Pain nella maniera più limpida possibile, facendo comunque un grande in bocca al lupo ad Alessandro Capriolo.

Cos’è Citizen Pain?

Il progetto Citizen Pain lo attendevo da un po’. Seguendo Capriolo sui social, ho potuto notare l’amore profuso nel progetto, lo stesso amore che un padre potrebbe riservare solo al figlio preferito. Il primo problema però, arriva già nell’inquadramento della tipologia di gioco che ci si ritrova ad avere tra le mani: nelle prime fasi infatti, il titolo veniva descritto come un Souls-like, una definizione che non può non creare aspettative alte in chi come me, ama il sotto-genere e ne ha già avuto un assaggio italico non proprio gradevole.

C’era poi chi, più cautamente, parlava di “action RPG”, una definizione che viene ormai utilizzata per inglobare una quantità di giochi sproporzionata, ma con cui si va più o meno sul sicuro. Giocando al titolo per svariate ore però, la definizione più calzante è quella di hack n’ slash con elementi (circa) Souls-like.

Il gameplay si sostanzia in una serie di Stage (chiamatele istanze se volete), che bisogna “ripulire” nel minor tempo possibile, cercando di prendere meno danni possibili e battendo il boss di fine Stage. Una struttura che ricorda quasi più Crash Bandicoot 3 o, a voler tirare la corda e facendo entrato i Souls nell’equazione, Demon’s Souls: il giocatore seleziona lo stage, entra e tira dritto.

Cos’è Citizen Pain? (player.it)

Gli stage sono composti da corridoi intervallati da arene, all’interno delle quali è possibile trovare diverse tipologie di nemici più alcune casse, che possono nascondere cure o ricompense. Ma quindi in cosa si sostanzia la parte Souls-like? Grazie per avermelo chiesto: beh, in realtà le influenze del sotto-genere sono davvero poche e sparute. La prima che salta all’occhio, è la possibilità di effettuare schivate, parate e parate perfette, oltre il poter “rompere la postura”. Di CS ne parliamo bene tra poco.

Altro elemento simil-Souls è dato dal sistema di progressione del personaggio: alla fine di ogni stage, con le “anime” accumulate, si torna in un hub centrale, all’interno del quale un enigmatico NPC ci permetterà di salire di livello, con parametri abbastanza basilari. Vista la natura “a istanze”, lo sviluppatore ha pensato di non inserire totalmente il concetto di corpse run. In questo modo, potrete affrontare gli stage a cuor leggero, sapendo che anche se morirete, avrete comunque accumulato un buon gruzzoletto di “anime” che non potrete più perdere in alcun modo.

Le similitudini coi titoli di From si fermano qui: non vi è un inventario né la possibilità di costruire una vera e propria build. E sarò sincero, da un certo punto di vista è anche meglio: come hanno già ampiamente dimostrato i ragazzi di Jyamma, che di risorse e personale ne avevano sicuramente di più, sviluppare un Souls-like è molto impegnativo e l’ambizione rischia di bruciare anche la buona volontà. Ben vengano titoli più “semplici” nelle meccaniche. Certo, sarebbe bello se quelle meccaniche così semplici, funzionassero.

Sei bravo a parole, ma con la spada come te la cavi?

La trama, molto semplice, è raccontata tutta tramite pannelli statici (se non per un leggero zoom che si esaurisce presto) e didascalie, ricordando tanto un libro illustrato o una campagna di D&D. Non è qualcosa su cui spendere troppe parole: è più che altro un pretesto, per capire contro chi o cosa si stia lottando nei vari stage, seppur in maniera molto generale e sommaria. Le cut scene sono ridotte all’osso e lasciano trasparire tutti i problemi del budget risicato, dalle animazioni ingessate fino alla totale mancanza di mimica facciale.

Il combat system, il vero fulcro dell’esperienza di Citizen Pain, presenta diversi problemi, legati alternativamente a elementi diretti e indiretti.

Tra gli elementi diretti, vanno sicuramente le meccaniche di combattimento: il giocatore avrà un tasto per effettuare attacchi leggeri (anche con una breve combo) e un tasto per gli attacchi pesanti, fine. Ci viene spiegato nei primi tutorial, che effettuare l’attacco pesante sui nemici può causare in loro una sorta di stordimento, che appare come un alone blu che attornia il nemico in ginocchio.

A livello di armi, verrà equipaggiata di default sempre e solo una spada lunga. Può capitare, durante “l’esplorazione” degli Stage, di trovare delle casse che, se distrutte, possono dare accesso ad armi speciali come spadoni e asce. Queste armi speciali funzionano a consumo: una volta che la barra viola si esaurisce, il personaggio cambierà automaticamente arma, tornando alla spada base.

Se stessimo giocando a uno shoot’em up a scorrimento, non sarebbe poi troppo male trovare armi speciali. In un action però, un cambio d’armi così repentino, nel mezzo dell’azione, può creare non pochi problemi dato che bisognerà abituarsi a un sistema di tempismi e a moveset totalmente nuovi, senza nemmeno la possibilità di scegliere se cambiare l’arma, tornando volontariamente alla spada base.

Lato difensivo, la questione è gestita un po’ meglio: non essendoci gestione della stamina, è possibile “cheesare” i nemici semplicemente facendo panic-spam di schivate, creando spacing tra sé e i nemici e affrontandoli pochi alla volta. La parata è già un po’ complessa: parare normalmente non converrà quasi mai, dato che ci si troverà comunque a prendere una quantità di danno non indifferente; la parata perfetta sarebbe anche una buona opzione, se si riuscissero a capire bene i tempismi e le hitbox dei nemici.

Visuale periferica aiutami tu

Parlando di hitbox, non si può non arrivare a parlare di quello che reputo il problema più grave dell’intera produzione. La scelta di Capriolo, che a questo punto ritengo decisamente opinabile, è stata quella di impostare la visuale del titolo in prima persona. Questa cosa, spiace dirlo, sarà la cosa che vi farà morire la maggior parte delle volte.

Quando si sviluppa un titolo in prima persona, con la volontà di renderlo frenetico o quantomeno pieno di nemici, bisogna pensare al fatto che il giocatore NON avrà visuale periferica. Si tratta di un problema che anche in produzioni più grosse, non necessariamente in prima persona (tipo God Of War 2018), si rivela fastidioso dato che impone al giocatore di girare continuamente la telecamera a destra e sinistra per riuscire a intercettare i nemici.

Questa cosa presenta due problemi: il primo è relativo, appunto, alle hitbox. Purtroppo, Citizen Pain non presenta hitbox chissà quanto precise e, specialmente quando più nemici saranno a schermo e si effettueranno movimenti repentini di camera, capiterà di mandare dei colpi a vuoto, per poi ritrovarsi immediatamente esposti a nemici che ingombreranno l’intera visuale. Questa cosa, unita al fatto che le arene sono abbastanza piccole e che innescare le parate perfette mentre si viene pressati da più nemici insieme, è praticamente impossibile, è un problema che può facilmente scadere nella frustrazione.

Visuale periferica aiutami tu (player.it)

Il secondo problema, quello che forse perdono molto meno, è la mancanza di input audio o video che permettano di leggere gli attacchi che arrivano da fuori dal cono visivo del giocatore. Pensate ai Batman Arkham, ai Marvel’s Spider-Man, allo stesso già citato God Of War. Tutti quei giochi, presentano un sistema di riconoscimento degli input avversari, che tramite segnalazione luminose e sonora, avverte il giocatore dell’arrivo di un attacco, permettendo di costruire una strategia di difesa, seppur repentina.

E tutti i giochi citati sono in terza persona. Pensate quanto può essere invalidante la mancanza di queste segnalazioni, in un titolo in prima persona, in cui il combattimento hardcore è centrale. Ma anche a non voler inserire segnalini luminosi, che potrebbero rovinare l’immersività, sarebbe bastato accentuare tanto i rumori emessi dai nemici: un urlo di battaglia, il calpestio dei piedi sul terreno, l’estrazione di una spada dal fodero. Tutto questo, con un sistema di audio tridimensionale, avrebbe dato al gioco una faccia totalmente diversa, migliorando di tanto l’esperienza generale.

Pad o M&K?

Il nostro consiglio è quello di giocare Citizen Pain con mouse e tastiera, se vi sentite avvezzi al mezzo. Si tratta del modo migliore per riuscire ad avere un minimo di crowd control, compensando alle mancanza della prima persona, con movimenti di camera molto rapidi (al netto dei problemi evidenziati a riguardo), impossibili da replicare col pad.

Nonostante tutto, abbiamo provato l’esperienza col pad e purtroppo, non è stata molto felice: i tutorial sono interamente pensati e raccontati per essere effettuati con M&K; anche il layout dei tasti che permane a schermo, per ricordare sempre al giocatore come effettuare tutte le azioni di base, è configurato sempre e soltanto per M&K, anche se state attivamente utilizzando il pad.

Questo porta a dover scoprire da soli come utilizzare il pad, affidandosi un po’ al caso e un po’ all’esperienza. Nulla di troppo grave sicuramente, ma si tratta di una cosa in meno che sarebbe stato bello vedere inserita in maniera migliore, anche al netto del fatto che a differenza di M&K, il pad permette le gestione dello spacing e delle schivate in maniera decisamente più precisa, potendo intercettare più facilmente le diagonali. Peccato.

Arte e tecnica

Il gioco si presenta, a livello di immaginario, come un dark fantasy medievaleggiante in cui si lotta cappa e spada, affrontando non-morti di varia natura e potenza. Le ambientazioni sono uno degli aspetti migliori del gioco, permettendo un’immersione reale nelle atmosfere del titolo, anche se non sappiamo quanto potrete godervele vista la frenesia degli scontri e i problemi tecnici che ammantano l’esperienza. Andiamo per gradi.

Per quanto riguarda i nemici, i design sono pochi e tendono a ripetersi spesso, così come i moveset. Nulla di troppo fastidioso: trattandosi di Stage molto rapidi, non si sta certamente a guardare il capello. Il problema più grosso in questo senso, è rappresentato dai boss: nemici unici, che rispondono spesso alle stesse regole dei nemici base, che vanno a terra con un singolo attacco pesante e che basta affrontare creando spacing e aspettando che questi accorcino le distanze, fino a essere a portata di affondo. Ripeti finché la barra della salute non si esaurisce.

Arte e tecnica (player.it)

Anche i moveset dei boss tendono a essere parecchio semplici e leggibili. Non vi consigliamo comunque di tentare i parry, dato che soprattutto durante le combo, sarà quasi impossibile. Come detto, vi basterà schivare e allontanarvi. Capriolo si sarà reso conto della semplicità di molti boss, cosa a cui ha tentato di ovviare nella maniera più fastidiosa da che esiste il medium videoludico: facendo spawnare, in loop, nemici base a fare da “minion” per il boss. Per carità, nulla di troppo complesso, ma una soluzione che è indice di una gestione “economica” degli scontri che dovrebbero rappresentare l’elite. Comprensibile, considerando il budget della produzione che più indipendente non si può, ma comunque fastidioso.

Un elemento di quality of life interessante, è dato dalla gestione delle cure. Il giocatore, durante gli Stage, avrà due modi per curarsi. Il modo “diretto” consiste nel distruggere le casse presenti nelle arene e pregare che da una di queste esca un pollo. Interagendo col pollo, potrete mangiarlo e recuperare una parte di vita; il secondo modo, quello indiretto, si attiva quando la vostra salute scende a zero: in quel momento, il personaggio utilizzerà automaticamente una fiaschetta di cura, producendo anche un’onda d’urto che servirà ad allontanare i nemici e farvi respirare. Molto meglio così che con frame d’invincibilità imprecisi, bene.

Tecnicamente il gioco presenta diverse lacune: abbiamo provato a scaricare due volte il gioco, nel caso in cui certi problemi fossero dovuti a un errato download di alcuni elementi, ma il risultato è rimasto lo stesso: il pop-up degli oggetti, soprattutto durante sezioni più concitate, è parecchio repentino e spesso ci si ritrova a “bloccarsi” per via di ostacoli invisibili. Non esattamente il massimo, durante scontri rapidi. Frame rate ballerino e instabile, indipendentemente dai settaggi grafici utilizzati. Colonna sonora interessante che, seppur ripetitiva, riesce a regalare adrenalina agli scontri.

Conclusioni

Citizen Pain, l’opera prima di Alessandro Capriolo, presenta tanti problemi, forse troppi. Ed è giusto, a mio modo di vedere, che tali problemi vengano messi in luce, per permettere a un giovane e ambizioso sviluppatore italiano di capire come e cosa migliorare.Al netto della decina d’ore che potrebbe regalarvi, la speranza è di risentire il nome di Capriolo, associato magari a una produzione più solida, più a fuoco, che sappia fare tesoro di quello che, al netto di tutto, va considerato un primo (non necessariamente ‘falso’) passo.

This post was published on 5 Dicembre 2025 21:00

Pietro Falzone

Redattore Appassionato di videogiochi sin dal sempre più lontano 2002, quando per festeggiare i 5 anni ricevette una copia di Crash Bandicoot per la prima PlayStation. Il richiamo dell'avventura digitale lo fece innamorare di un mondo fatto di pixel, più o meno definiti. E l'amore non si è mai fermato. Inizia così a tastare tutti gli aspetti del mondo videoludico. Tra le sue più grandi passioni, si piazzano in ordine gli MMORPG (con sempre meno per giocarli, purtroppo), gli sparatutto in prima persona e, doprattutto, giochi di ruolo single player. Così si spiegano le più di mille ore, spalmate sui vari titoli From Software, da Demon's Souls in poi. Dalla fine delle medie, scopre una nuova passione: la scrittura. E come se non bastasse, scopre che nel mondo c'è chi scrive riguardo ai videogiochi, come se fosse un lavoro vero. Cosa fare di due passioni del genere dunque? Inizia così la ricerca disperata del giusto vascello, che riuscisse a convogliare voglia di fare, idee e tempo. Dopo un periodo passato a peregrinare, tra siti e sitarelli, approda su Player.it dove trova una casa in cui convogliare idee e spunti, al fianco di un team solido e costruttivo.

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