RoboCop: Rogue City: siamo prigionieri del nostro passato (ancora una volta)

La Nancon Connect 2021 ha rivelato nuovi dettagli di giochi annunciati negli scorsi mesi-come Steelrising di Spiders (Greedfall) o Vampire: The Masquerade-Swansong, ma ha anche ospitato l’annuncio di un gioco che riprende un’antica licenza cinematografica in maniera del tutto inaspettata: RoboCop: Rogue City, dagli stessi sviluppatori del dibattuto Terminator: Resistence.

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Sulla carta, lo sfruttamento di vecchie IP cinematografiche a fini videoludici non sarebbe neanche così sorprendente. All’interno della stessa manifestazione è stato per esempio mostrato un nuovo gameplay trailer di The Lord of The Rings: Gollum, atteso action/stealth game ad ambientazione tolkeniana, e all’E3 abbiamo assistito all’annuncio di Avatar: Frontiers of Pandora.

A colpire tuttavia in questo caso è altro, ovvero il fatto che RoboCop sia il secondo franchise anni ’80 a essere ripreso in un progetto videoludico a qualche mese di distanza da reveal dell’atteso Indiana Jones di Bethesda.

RoboCop: Rogue City, ritorno a Detroit

Poco sappiamo del nuovo progetto di Teyon, se non che promette di far rivivere le atmosfere della trilogia action inaugurata nel 1987 dal visionario Paul Verhoven: da questo punto di vista, il teaser del gioco mostra molto poco e punta sull’elemento iconico, permettendo di dare un’occhiata all’armatura del personaggio e strizzando l’occhio alle atmosfere da “città in crisi” della serie.

Per i più giovani e non addentro al genere, quella di RoboCop è una serie di action sci-fi distopici che vedeva protagonista Alex Murphy, poliziotto di Detroit ridotto in fin di vita da un gruppo di criminali, che diventa soggetto di un progetto straordinario: ciò che resta del corpo di Murphy viene infatti inserito all’interno di un apparato meccanico, e il suo cervello riprogrammato per divenire quello di un essere votato alla lotta contro il crimine organizzato.

Si trattava di un action metropolitano con sparatorie, violenza anarchica e critica sociale strisciante (a essere attaccato era lo strapotere delle multinazionali e della grande industria, nonché il moralismo reazionario da tarda Guerra Fredda). Un’opera (e una licenza) strana, sempre in equilibrio fra cinema di cassetta e qualcosa di più autoriale, un film nero nel quale il machismo tipico dell’America reazionaria e nazionalista (quella degli episodi più beceri di Rambo, quella di Chuck Norris e Steven Segal, quella del militarismo esasperato) si infrange contro un utilizzo della violenza provocatorio, brutale, cattivo, graffiante.

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Robocop, il primo episodio della serie (1987)

Ispirazioni di Verhoven, non il classico regista action ma un autore europeo conosciuto per la sua capacità e volontà di rappresentare una violenza e brutalità spintissime, erano per esempio i fumetti di Frank Miller, in cui l’eroe tipico veniva caricato di una spietatezza e visceralità tanto marcate da apparire quasi negativo o folle.

Nel corso degli anni ’90, decennio successivo al primo film, Robocop è stato protagonista di ben otto trasposizioni videoludiche, costruite quasi tutte sul modello sparatutto a scorrimento e uscite su PC, console (anche portatili) e cellulari.

Il primo episodio è del 1988, poco dopo l’uscita del primo film, ed è stato seguito a raffica da due giochi usciti in corrispondenza con il secondo e terzo episodio della serie (1992 e 1993), nonché da una moltitudine di riproposizioni che hanno sconfinato anche nei territori dell’FPS e del tipico gioco mobile.

Basta vedere una carrellata di questi giochi per capire come le software house abbiano sfruttato per lo più i lati pop e action dell’ambientazione per realizzare prodotti “per tutti”, classici tie-in per sfruttare l’onda del momento.

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Robocop, il primo videogioco (1988)

Di sicuro l’utilizzo di RoboCop da parte del videogioco non ha voluto riproporre lo stesso spirito di rottura dei film, e gli stessi contenuti di satira e critica. Oggi il gioco di Teyon potrebbe finalmente darci il RoboCop più maturo della sua storia videoludica in termini narrativi, ma si potrebbe chiedere molto di più, come per esempio (perché no) un open-world cittadino simil-GTA nel quale però vestire i panni di un cavaliere metallico impegnato a risolvere i crimini più disparati, magari riprendendo altri personaggi e situazioni dai film. Un gioco del genere potrebbe essere bello, coinvolgente e rendere giustizia al personaggio, senza dare l’impressione di avere fra le mani solo un tentativo di mungere la mucca.

Certo il problema è che Teyon non è proprio una rassicurazione di estrema perizia, dato che i suoi progetti precedenti sono stati estremamente dibattuti e contestati, ma almeno sulla carta il potenziale è notevole.

La cosa che emerge è tuttavia che RoboCop tenti questa sortita anni e anni dopo l’ultimo episodio filmico, e anni dopo un tentativo di reboot in salsa “2.0” del 2014 (neanche troppo riuscito).

Rinnovare IP, sfruttarle, farle rendere al massimo

Al momento non sono previsti ulteriori reboot cinematografici del film, dunque il brand sembra destinato a sopravvivere e a essere tramandato soltanto attraverso questo progetto.

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Questo fatto rende la necessità di fare un gioco dedicato a RoboCop estremamente diversa rispetto a uno incentrato su Indiana Jones, e paradossalmente simile a quella su Gollum. Se infatti Indiana Jones è un brand che con il quinto episodio della serie cinematografica (in produzione, ancora una volta diretto da Spielberg) deve essere rivitalizzato su diversi fronti, a prescindere dalla convergenza narrativa o meno, licenze come Il Signore degli Anelli o RoboCop sono quasi del tutto ferme.

Cosa vuol dire questo? Che le aziende detentrici dei marchi hanno bisogno di nuovi prodotti per sfruttare il loro potenziale al fine di farle fruttare (magari contando su una fan-base storica che a distanza di trent’anni potrebbe optare ancora per sborsare soldi). Al contempo, operazioni come queste servono ancor più per garantire ai detentori del marchio i pieni diritti su di esso, pena la scadenza.

Il risultato? Non diverso da quel che si verifica col cinema: siamo destinati, ciclicamente, a improvvise risurrezioni di questo o quel brand, a costanti revival, a ritorni improvvisi del passato.

Insomma: no, la nostra infanzia non finirà mai di tormentarci.