Dal cinema ai videogiochi: anatomia dei jumpscare | #CrossPlayer

Sono un semplice figlio del mio tempo: arriva ottobre, il mese di Halloween?
E allora ho ancora più voglia di horror.

Siano videogiochi, film, racconti sussurrati nel buio di una stanza notturna, o il risultato della ricerca “spooky sounds” su YouTube, ciò a cui tendo è un senso di cupezza, il brivido che generi la pelle d’oca.

Non è un caso: horror deriva dal latino horreo, che significa «essere ruvido», e la ruvidezza è proprio una delle reazioni con le quali la cute manifesta lo spavento. Dettaglio calzante: pelle d’oca si riferisce alla superficie della carne dell’animale privato delle penne. Una condizione successiva a quella che la bestia vive come una tortura, fonte di dolori indicibili, un’operazione che l’uomo esegue spesso senza anestesia. Già abbastanza horror, è evidente.

Che poi, l’italiano condivide con l’inglese il rimando al regno animale, mentre in altre lingue come il francese e lo spagnolo troviamo la traduzione di pelle di pollo: e cosa genera più brividi, un’oca o un pollo?

Oggi mi soffermerò su uno specifico tipo di spavento, quello più semplice e tuttavia più infido, istintivo – dovrei forse dire bestiale: il jump scare.

Storia di uno spavento

L’utilizzo dell’espressione è noto: il jump scare si riferisce al sobbalzare, la reazione indifesa all’inatteso, lo spavento generato dal bu! improvviso e infantile. Prestiamo attenzione: scare proviene, attraverso il Middle English, dal norreno skirra, che significa impaurire ma anche evitare, prevenire.

E il nostro letterale saltare per la paura – vale a dire il jump scare – è finalizzato forse a svegliare il corpo per evitare di trovarci indifesi in una situazione di pericolo. Ma qui stiamo parlando della realtà, dove a farci accapponare la pelle non sono zombi o licantropi ma mostruosità ben più spietate come il precariato o il caro bollette: quand’è allora che nasce il jump scare?

Uno dei primi impieghi su schermo di questa tecnica risale al 1925 con il film Il fantasma dell’Opera, prodotto dalla Universal, tratto dal romanzo di Gaston Leroux. La scena è quella dello smascheramento: potrebbe sembrare del tutto innocua ai nostri occhi, ma occorre ricordare che il pubblico del tempo era alle prime esperienze col cinema dell’orrore; e infatti la sequenza ebbe un forte impatto sugli osservatori.

Non lasciamoci poi sviare dal fatto che si trattasse di un film muto: le proiezioni precedenti all’arrivo delle tecnologie audio nel cinema potevano essere accompagnate da incalzanti sonorizzazioni orchestrali.

Quasi vent’anni più tardi, nel 1942, Jacques Tourneur si concederà di giocare con la tecnica del jump scare.

Il bacio della pantera (titolo originale Cat People) racconta la storia della disegnatrice di moda Irena Dubrovna e della sua misteriosa discendenza. La scena del bus è un gioiellino di esecuzione sul tema del brivido: la strada solitaria nella notte, il rimbombo dei propri passi, i rami degli alberi agitati dal vento, la sensazione di essere spiati, seguiti, fino al ribaltamento finale.

Il jump scare è a questo punto una tecnica assodata, una carta facile ma delicata nella mano dei registi: dall’utilizzo da antologia che ne fa Hitchcock in Psycho nel 1960, all’esasperazione di film e saghe che lo pongono al centro dell’intera linea del racconto come i Venerdì 13 dagli anni ’80, fino alla rielaborazione e all’autoironia dei brillanti Scream creati da Wes Craven.

Nel frattempo, i videogame sono diventati un fenomeno di massa.

Bestie e radici

Per parlare del jump scare nei videogiochi è inevitabile passare dalle pantere ai cani – più precisamente ai Dobermann. Si sarà già capito: la data è quella del 22 marzo 1996, villa Spencer è il luogo del delitto, Mikami Shinji il colpevole. Resident Evil/Biohazard si appresta a ridefinire il concetto di horror game ponendo in auge l’espressione survival horror, e per farlo si serve anche di quelli che sono probabilmente i due cani zombi più famosi al mondo.

In Capcom parlavano giapponese, dove survival, sopravvivere, si dice ikinokoru (生き残る); e se invertiamo i due kanji che compongono la parola otteniamo zansei (残生), ossia «tempo che rimane da vivere».

Ironia della morte: col joypad tra le mani si avanza fino al prossimo mostro che ci divorerà, fino al game over.

In italiano e in inglese invece la radice è dal tardo latino supravivĕre, «vivere sopra», vale a dire «vivere più a lungo».

Eppure negli anni Novanta non era semplicissimo sopravvivere a questa scena:

Ma non è questo il primo momento di jump scare nei videogiochi, così come Resident Evil non è il primo titolo survival horror a essere stato pubblicato. I precursori sono diversi, ma uno esprime con particolare efficacia la tecnica orrorifica che stiamo indagando oggi.

Appena qualche mese prima, nell’autunno 1995, Human Entertainment aveva pubblicato su Super Nintendo l’agghiacciante Clock Tower. In questa avventura grafica ispirata al cult Phenomena di Dario Argento la tensione è costante, il pericolo sempre imminente, e i jumpscare abbondano.

Cercare di risalire al primo jumpscare videoludico comporta le stesse conseguenze incontrate con la settima arte: ci si confronta con un prodotto estremamente lontano dall’odierna consuetudine del medium e dalla nostra percezione di fruitori. Ergo, è probabilmente simile anche l’effetto che suscita in noi oggi Rescue on Fractalus!/Behind Jaggi Lines!, simulatore di volo sci-fi del 1985 sviluppato – ennesimo collegamento col cinema – dalla LucasFilm Games.

Diversi osservatori riconoscono in questo gioco il primo possibile salto dalla sedia in un videogame – ci sono state espressioni e tentativi precedenti, ma non con lo stesso risultato.

E così, dopo felini, cani zombi, baby killer, vi lascio con gli alieni.