Il difetto più grande dei giochi narrativi

il difetto dei videogiochi story driven

Quante volte vi sarà capitato di desiderare che la scena di un film cambiasse per salvare il vostro personaggio preferito o per raggiungere il lieto fine? Avete visto Titanic 1274 volte, ma ogni volta sperate che Jack salga su quella porta galleggiante (o che il costruttore abbia pensato a un numero di scialuppe consono a un viaggio transoceanico). Purtroppo, non si può fare, non siamo noi a decidere l’esito di un film perché la cinematografia è un’arte passiva.

Il videogioco ha riscritto negli anni queste regole permettendo al giocatore, in quanto arte attiva, di decidere le sorti dei personaggi e il finale preferito (comunque nei limiti di una sceneggiatura scritta a priori). Il videogioco story driven, cioè incentrato principalmente sulla narrativa, è apprezzato dai più, anche se non manca chi continua a definire particolari iterazioni del genere come “film interattivo”, con fare un po’ dispregiativo.

“Non si gioca, quindi non è un videogioco”, questa la lamentela più comune. Opinione molto riduttiva, e oggettivamente poggiante su una falsa percezione, che accompagna spesso titoli di precise aziende, quali Quantic Dream, Supermassive Games e Dontnod. Non si vuole con questo articolo entrare nel merito della “polemica”, ma riconoscere che se i giochi di questo tipo hanno un difetto, non risiede nel poco gameplay, ma proprio sulle scelte narrative e di copione. I giochi narrativi, anche quando rimangono affascinanti e di grande impatto emotivo, palesano un grosso difetto.

Giochi narrativi: il loro più grave difetto

Il più grande difetto dei titoli narrativi, che consentono ai giocatori di cambiare la storia facendo delle scelte, risiede nel loro essere poco accondiscendenti e accomodanti anche quando le decisioni prese sono perfettamente logiche e dovrebbero portare a conseguenze altrettanto logiche.

Spieghiamo meglio il concetto: nei videogiochi narrativi con scelte e bivi c’è comunque una storia bell’e pronta, c’è una sceneggiatura che porta a degli eventi di numero finito, possono esserci anche centinaia di diramazioni, ma il numero di eventi sarà sempre finito. Fino a qui non ci piove. Il problema si pone quando la sceneggiatura se ne frega altamente delle scelte operate dal giocatore e propone conseguenze che non hanno minimamente un senso, ma che avvengono a causa di un copione scritto palesemente male.

Ovvio e sacrosanto che un videogioco non possa prevedere qualsiasi conseguenza, tuttavia quelle conseguibili dal giocatore devono essere logiche, altrimenti il sistema a bivi ideato dagli sviluppatori diventa finto e, in alcuni casi, frustrante. Se io prendo una decisione che ritengo possa portare a una conseguenza positiva e mi accorgo che conduce invece al caos totale, lo accetto, purché questo sviluppo inatteso non sia illogico.

Dove sta il bello nei videogiochi story driven? Nell’imprevedibilità, questa però non deve distruggere la credibilità delle vicende e soprattutto della scrittura. Un esito negativo imprevisto è parte integrante del gioco solo se plausibile, altrimenti è semplicemente un percorso tracciato con il pennarello invisibile a discapito dell’attendibilità della storia.

Nei videogiochi di Supermassive Games (Until Dawn, The Quarry, la serie The Dark Pictures), ispirati ai B-movie americani, quindi incentrati su ragazzi con un QI non altissimo, è presente una dinamica che va ad alterare il carattere dei protagonisti, i quali possono cambiare opinione su di noi e agire di conseguenza durante l’avventura in base alle scelte che operiamo; fin qui tutto bello, tuttavia non è raro che nei loro giochi ci si imbatta in personaggi schizofrenici e sociopatici senza alcun motivo. Se si danno risposte innocue, senza alcun tipo di polemica, l’interlocutore impazzisce comunque e replica stizzito, alterando negativamente il rapporto, perché da copione – scritto male – deve accadere questo. È irritante.

Un esempio che rende bene l’idea è Twelve Minutes. Nel videogioco indie che ha avuto un certo risalto alla sua uscita per la presenza di doppiatori di altissimo spessore (James McAvoy, Daisy Ridley e Willem Dafoe), la premessa di un intricato caso da risolvere in loop di dodici minuti era davvero intrigante, ma si è andata a infrangere contro una sceneggiatura troppo inflessibile e rigorosa per un titolo di quel genere. Twelve Minutes non permette quasi mai al giocatore di arrivare alla soluzione attraverso la propria logica, ma solo passando per quella degli sviluppatori, più lunga e contorta. Dopo un certo numero di loop, la situazione diventa chiarissima, il problema è che se non agisci nell’ordine prestabilito, succederanno sempre eventi che fanno ripartire il loop.

Il personaggio emblematico è il poliziotto che agisce come se non riuscisse a connettere il cervello (che da un lato ci sta, è molto arrabbiato, non ragiona e non vuole ragionare, ma c’è un limite a tutto). Il poliziotto è palesemente un espediente narrativo per chiedere al giocatore di fare come dice l’autore. Capiamo che una fotografia è importante per sbloccare la situazione? La logica vorrebbe che la mostrassimo al poliziotto. No, se non lo facciamo quando ha deciso l’autore, il personaggio semplicemente si arrabbierà e ci tirerà un cazzotto, facendo ripartire il loop. Non ha senso.

Di questi casi ne è davvero pieno il mondo dei videogiochi narrativi, ed è questo il loro più grande difetto. Una criticità che non di rado affossa la qualità di un’opera che potrebbe essere eccellente, ma non riesce a raggiungere quel livello a causa di scelte di copione irragionevoli.

L’impressione è che, paradossalmente, i videogiochi narrativi non riescano a proporre un’esposizione dei fatti di pari livello o superiore a quella di titoli non catalogabili specificamente come story driven, ma osannati, a ragione, proprio per la loro storia. Ciò dipende, probabilmente, anche dalle risorse di chi propone cosa. Ad esempio, Death Stranding e The Last of Us presentano storie eccezionali anche grazie a risorse maggiori che permettono ai team di collaborare e vare tra le proprie fila professionisti del settore narrativo, mentre i giochi Dontnod e Supermassive Games sono classificabili come AA, pertanto con meno possibilità. Per quanto, una bella storia, credibile e senza forzature, ha bisogno maggiormente di idee piuttosto che di soldi.

Discorso a parte quello che riguarda gli FMV, full motion videogames, girati con attori reali. Lì la qualità è veramente rara, con titoli come I Saw Black Clouds e She Sees Red che mostrano apertamente la loro natura low budget. Le eccezioni si contano sulle dita di una mano e portano spesso il nome di Sam Barlow (Her Story, Telling Lies).

Anche Quantic Dream, l’azienda che propone a oggi le migliori esperienza a bivi, ha avuto alti e bassi nella sua carriera, infatti Heavy Rain presenta tantissime storture di sceneggiatura (causate da un taglia e cuci poco avveduto), mentre Detroit: Become Human è da considerarsi il loro miglior prodotto, grazie a un sistema di diramazioni ben studiato. Ogni tanto, anche nella storia degli androidi Markus, Connor e Kara ci sono esiti che fanno storcere il naso, cosa che fa capire quanto sia effettivamente complesso creare una struttura solida quando si devono immaginare così tante variabili.

I videogiochi narrativi sono una delle declinazioni più coinvolgenti dei giochi d’avventura, appassionano grazie a storie avvincenti e conquistano il cuore dei giocatori andando a toccare corde particolari. La speranza è che il genere possa crescere ancora di più per offrire esperienze sempre più memorabili.


Leggi anche: Quando l’estetica inganna il giocatore