Il sapore del thé preso poco prima di immergersi in una onsen.
L’umidità che sveglia Atsu al mattino, mentre è appoggiata al suo cavallo in un accampamento di fortuna alle pendici del monte Yotei.
Il sapore ferroso del sangue che impregna le vesti da samurai che abbiamo potenziato durante il corso delle nostre ultime ore, complice l’accampamento pieno di avversari dilaniati dalla nostra voglia di vendetta.
La dolcezza di una volpe che ci saluta quando scegliamo di seguirla.
L’odore del ginko che con i suoi colori si fa notare da centinaia e centinaia di metri.

Potrei continuare per diverse decine di righe a sintetizzare COS’E Ghost Of Yotei senza mai parlare chiaramente, in termini puramente analitici, di qual’è la sua fibra; potrei perché l’opera di Sucker Punch di cui state leggendo la recensione è una bestia estremamente canonica nella sua struttura ludica ma anche impregnata di una voglia di trasmettere emozioni che raramente vediamo in giro.

Questa trasmissione di emozioni, poi, è veicolata attraverso il mero comparto tecnico: solitamente il più difficile degli strumenti di comunicazione presenti all’interno del medium videoludico eppure qui così capaci di lasciar percepire ciò che un televisore non potrà mai farci sentire. Odori, sapori, le ossa ferite dall’umidità pesante del mattino, una voglia di vendetta che basterebbe per far ardere il mondo intero.
Quanto ci costerà questa vendetta?

La storia di Atsu, protagonista di Ghost Of Yotei, è quella di un’essere umano che deve scendere a patti con la sua ragione di vita, la vendetta, in un mondo che ci ricorda a più riprese che esistono altre cose di cui doversi preoccupare. Unica sopravvissuta di un nucleo familiare piccolo ma davvero unito, Atsu fin dalle prime scene mette in chiaro con il giocatore quali sono le sue intenzioni: eliminare coloro che hanno rovinato la sua vita e ucciso le persone più importanti del suo passato, anche a costo di rimetterci lei la pelle.
Questo viaggio viene fatto attraverso la “maschera” dell’Onryo, un fantasma che ritorna nel mondo dei vivi per cercare vendetta e che vendetta troverà, al modico costo delle vite di tutti quelli che proveranno a fermarlo. Una storia ben diversa da quella del predecessore, che si imperniava sul significato dell’onore all’interno di un particolare contesto culturale, ma che ancora una volta porta la sua lente d’ingrandimento su tematiche che a noi occidentali colpiscono solo di striscio; nel senso di esploratore culturale, Yotei davvero fa un buon lavoro grazie a una scrittura anche interessante nel contesto delle sue missioni principali e sempre dignitosa invece nel contesto delle attività secondarie.

Il giocatore si ritroverà ad accompagnare la rabbiosissima Atsu nella sua rappresaglia contro i sei di Yotei, luogotenenti di Lord Saito, l’assassino del proprio padre macchiatosi di tale azione spregevole sedici anni prima, convinto anch’esso d’essersi liberati di tutti i membri di quella famiglia. Atsu dovrebbe essere morta e non lo è: è ricolma di una rabbia che le ha cambiato per sempre la vita.
Maestosa natura in movimento

Parlare di Ghost Of Yotei senza soffermarsi almeno un po, allibiti, davanti alle prime schermate di gameplay in movimento è veramente difficile, proprio perché come anticipato nell’apertura di questo pezzo, l’opera di Sucker Punch riesce nel difficilissimo compito di trasmettere una montagna di emozioni diversi attraverso la mera potenza grafica di Playstation 5, dell’engine utilizzato dagli sviluppatori americani e da una combinazione di art direction e tecnicismi da lasciare veramente col fiato sospeso. Partiamo, ad esempio, dal commento delle scelte cromatiche: l’isola di Ezo in cui è ambientato il gioco, al giorno d’oggi anche nota come Hokkaido, è uno dei luoghi più incredibilmente belli mai renderizzati da un motore grafico nella storia dei videogiochi.
La parte davvero “interessante” di questo discorso è da legarsi allo sforzo sovraumano fatto dai creativi del caso nel far coniugare uno stile visivo realistico con colori e scorci che, se va bene, nella vita capitano giusto una volta. Fiori coloratissimi, nuvole di un candore esaltante, una pioggia martellante e delle notti talmente illuminate che sembra di non vivere sullo stesso pianeta: Yotei, esattamente come il suo predecessore Tsushima, costruisce un mondo di un fascino esagerato grazie a una maestria impressionante nella costruzione di un impianto grafico in grado di lasciare il segno, capace di renderizzare a schermo tutto quello che serve per portare in vita le idee degli sviluppatori.

Ad esempio Yotei mutua dal suo predecessore l’utilizzo del vento come strumento per la navigazione di mappe e livelli; come si fa a rendere visibile il vento, oltre che attraverso il movimento di ciò che viene attraversato dall’aria? Attraverso de segni pittorici che richiamano da vicino quello che gli artisti giapponesi facevano nell’ukiyo-e; e invece come ampliare il respiro della vicenda anche momenti più morti, quelli di “mera navigazione” mentre si è a cavallo? Si restringe il campo visivo della telecamera, tagliando verticalmente l’immagine con l’aggiunta di due belle bande nere. Si, c’è ancora la modalità kurosawa (come ce ne sono anche altre) ma di base il gioco non è che ne avrebbe realmente bisogno: c’è già tutto il necessario per poter definire questo titolo veramente “cinematografico”, in perfetto.
Un piccolo grande appunto poi per l’incredibile modalità foto: Sucker Punch, sapendo di avere tra le mani un videogioco dal valore scenico esagerato, ha puntato molto sulla modalità foto che è presente fin da subito all’interno dell’esperienza ed è richiamabile in qualsiasi momento con la semplice pressione di un tasto direzionale. Questa è davvero completa e permette di cambiare tutti i parametri che ci si potrebbe aspettare: lunghezza focale, inclinazione, zoom, direzione del vento, momento della giornata, volto della nostra protagonista e tantissimo altro. Gli appassionati di virtual photography avranno davvero pane per i loro denti.
Tutto quello che un samurai potrebbe mai voler desiderare

L’impatto di Yotei con gli occhi quindi è da applausi sperticati e in generale da salivazione eccessiva: fin qui ci siamo; come si comporta però tutto il resto visto che comunque parliamo di un videogioco action open world? La risposta che noi abbiamo trovato è: abbastanza bene, pur senza eccellere in ogni contesto.
I passi avanti fatti rispetto al precedente capitolo, Tsushima, sono tanti e sono notevoli e il primo si nota già nella seconda ora di gioco: la non linearità. Senza entrare troppo nel vivo della trama, Atsu per poter arrivare al suo obbiettivo finale dovrà affrontare sei diversi generali ma starà al giocatore scegliere l’ordine con i quali affrontarli e dotarsi, nel frattempo, anche di tutte le armi e gli strumenti necessari. Esplorando la prima zona di gioco, infatti, la nostra eroina riuscirà a mettere le mani una montagna di informazioni diverse se il giocatore si diverte a esplorare bene: dalla posizione dei singoli generali avversari alla posizione dei maestri d’armi nei vari punti di ezo, questi in grado di ampliare il nostro arsenale con nuove categorie di armi.
In termini di “singole missioni” non cambia poi granché: queste rimangono lineari e guidate, ma lo fanno nell’ottica cinematografica descritta anche sopra parlando del contesto tecnico. A cambiare, in base alla strada che si è scelta, sono le tematiche da affrontare, le meccaniche centrali di una particolare area di Ezo (all’estremo nord, ad esempio, si congela e non si può rimanere molto tempo al freddo vento senza vedere la prima salute scendere drasticamente) e le caratteristiche uniche offerte dalle varie armi esclusive, tra falcetti, spadoni, doppie lame e così via. Tutte le armi, poi, sono bilanciate tra di loro attraverso l classico sistema carta-sasso-forbice che abbiamo imparato a conoscere in una montagna di giochi action, a cui poi vanno aggiunti gli strumenti offensivi e di distrazione che erano presenti anche nel primo gioco (oltre che le armi a distanza, qua con ancora più varietà rispetto al passato). Qui il passo in avanti fatto è netto: più armi, più utilizzi specifici, più possibilità di affrontare i nemici in maniera interessanti ed efficaci: Ghost Of Yotei da questo punto di vista ci vede bene e riesce a incapsulare le sue idee in una confezione meravigliosa da vedere e anche piuttosto soddisfacente da giocare.

In termini di mera quantità di contenuti, Sucker Punch ha davvero dato il meglio di sé, pur rimanendo nei canoni di un open world tradizionale. Fortunatamente la componente esplorativa è molto accentuata, non presentando icone con punti interrogativi sulla mappa ma bensì lasciando al canocchiale e agli occhi del giocatore il compito di trovare i vari punti di interesse, a cui poi si sommano le mappe che si possono comprare da un apposito personaggio non giocante (e che vanno “incollate” sulla mappa principale in base a una serie di indizi visivi) o le voci che circolano nelle taverne locali per trovare le varie attività. Queste ultime sono popolate da personaggi non giocanti di varia tipologia che potranno venirci a trovare all’interno del nostro accampamento (perché si, potremo campeggiare in giro per la mappa di gioco) così da suggerirci quali sono le successive attività da fare o darci la possibilità di usufruire di particolari servigi anche lontano dai luoghi dove solitamente li troveremmo.

Esplorando liberamente, oltre che sui propri occhi, si potrà fare attenzione alla presenza di particolari uccelli colorati che sono associati con specifiche attività secondarie o ad alberi in fiore; quest’esplorazione organica, oltre che offrire il contenuto al giocatore, è fondamentale per fruire del sistema di progressione in quanto è l’unico modo per poter accedere ai punti abilità necessari per migliorare le capacità di Atsu. L’esperienza complessiva è di fatto impreziosita, ma si sente che gli sviluppatori non hanno voluto osare più di tanto per allontanare la parte meno “avvezza” dell’utenza console alle esperienze hardcore che nel corso degli ultimi anni hanno pian piano ottenuto un maggiore successo commerciale.
Anche nelle missioni secondarie si nascondono sorprese niente male, che alle volte mescolano il gameplay con quello di un horror, altre volte invece danno al giocatore la possibilità di fare un trekking in location dalla bellezza sensazionale; alle volte si sente la mancanza di quell’idea geniale o completamente inaspettata, inutile nasconderlo, ma considerato il pubblico di riferimento del gioco riteniamo un po’ inutile lamentarsi.
Quelle tre o quattro cose che funzionano meno
I passi avanti fatti da Sucker Punch nella costruzione dell’esperienza videoludica di Ghost Of Yotei sono innumerevoli e quelli che vi abbiamo citato finora sono soltanto alcuni di essi; ci sono però degli spigoli vivi che alcune fanno storcere il naso e che sembrano quasi delle dimenticanze.
Parliamo ad esempio della recitazione digitale: fin quando abbiamo a che fare con i contenuti prima è grandiosa e, anzi, raggiunge anche dei picchi di notevole intensità; quando ci si sposta sulle missioni secondarie, invece, molto spesso si ha a che fare con scenette recitate in maniera molto scialba, a tal punto da spezzare l’effetto cinematografico che invece permea qualsiasi altro momento del gioco. Viene spontaneo chiedersi se non fosse stato meglio per Sucker Punch fare delle scelte registiche diverse: dal far volare la telecamera a qualsiasi altra cosa, pur di non inquadrare quei volti un po’ spenti dall’assenza di animazioni sensate.

Vogliamo parlare di un altro spigolo? Il sistema di combattimento, ancora una volta, ha una telecamera imperfetta che non sempre riesce a restare dietro al ritmo dell’azione, allontandosi troppo lentamente o, ancora peggio, non facendolo abbastanza in fretta; questa velocità di movimento è perfetta fintanto che gli scontri comprendono un numero esiguo di avversari ma, invece, diventa insufficiente quando ci si getta a capofitto all’interno di un accampamento e si finisce per prendere l’aggro di più di 4 avversari. Anche qua: niente di irrisolvibile ma che fa storcere un po’ il naso in un videogioco che invece sembra aver previsto la stragrande maggioranza dei suoi problemi.

Ultimo difetto, ma questo completamente ininfluente al senso della recensione: ok la modalità Watanabe ma il senso di utilizzare così poche canzoni per descrivere le azioni a schermo? Il lavoro fatto da Nujabes per Samurai Champloo era irraggiungibile e fin qui ci siamo, ma tra quello e quanto curato da Watanabe per Ghost Of Yotei c’è un enorme scala di grigi in cui era meglio albergare per l’occasione, invece che eseguire un commento sonoro eccessivamente minimale come è stato fatto in questo caso. Mi viene da dire che è stata un’occasione sprecata ma forse è un’esagerazione; quello che ha senso dire è che è molto meno efficace nell’offrire un plus al gioco rispetto alla modalità Kurosawa (epica) e la modalità Miike (esaltante).
Conclusioni
Che bel viaggio è stato quello con Atsu in Ghost Of Yotei, anche se i difetti ci sono e le storture non mancano. Che bei colori e che panorami indimenticabili, e quanto deve essere brutto vivere con la vendetta del cuore e quanto invece bello è scioglierla questa vendetta, una vittima alla volta, accompagnando mano nella mano un personaggio in un percorso che lascia segni su chi lo gioca. Nel suo cercare di piacere a tutti sicuramente non piacerà a chi cerca esperienze “hardcore” ma poco male: questo è il gioco perfetto per chi cerca un videogioco cinematografico che sappia essere anche altro e che, ancor di più, è in grado di mostrare il valore estetico del medium declinato in una splendida forma di realismo poligonale.
Voto finale: 9

