Mettiamola così: Dying Light The Beast è la risposta di una software house a un pubblico insoddisfatto. Dying Light 2, quando è uscito, è stato recepito abbastanza bene dalla critica ma molto meno dal suo pubblico più affezionato, numericamente anche importante visto che il primo capitolo della saga ha venduto ben trenta milioni di copie.
Non abbastanza spaventoso, non abbastanza difficile, troppo incentrato su una struttura aperta e un combattimento melee che lasciavano il tempo che trovano per i giocatori di vecchia data. Dying Light era altro: era composto da notti invivibili, dalla possibilità di sparacchiare quà e là, da meccaniche di parkour avanzate che potevano essere concatenate ripetutamente per eseguire movimenti e volteggi irraggiungibili da zombie di qualsiasi caratura.
Il fatto che The Beast sia una risposta lo si capisce proprio dalla sua genesi produttiva: questo gioco, infatti, nasce come DLC del secondo capitolo della saga e viene poi trasformato in corso d’opera in seguito a dei leak; gli sviluppatori colgono la palla al balzo e decidono di rimodellare tale progetto sulla base di quelle che erano le cose desiderate dalla community. Il ritorno alle “origini” viene cesellato da una scelta narrativa ben precisa: quella di far ritornare al centro della vicenda Kyle Crane, protagonista del primo gioco e della sua espansione stand-alone The Following, proprio ricollegandosi a uno dei finali di quest’ultima.
Dove eravamo rimasti?

Kyle Crane, dicevamo, alla fine di The Following per motivi che non vi stiamo a spoilerare troppo si trasforma in un volatile, ovvero uno zombie estremamente pericoloso, capace di tirare fuori una forza fisica spaventosa oltre che dotato di una velocità sovraumana. Recuperato da GRE, l’associazione umanitaria che lo aveva mandato sotto copertura in Turchia per recuperare una copia del virus trasformatore, Kyle viene trasformato in una vera e propria arma umana in seguito al lavoro compiuto nel corso di tredici anni sul ceppo virale.
La nostra cavia umana, chiaramente, non ci sta e dopo anni e anni di sofferenze riesce a fuggire in una posizione liminale tra l’umanità e ila mostruosità, capace soltanto parzialmente di mantenere il controllo sul suo corpo durante la sua trasformazione in zombie. Il suo obbiettivo in questo caso è chiaro: trovare chi lo ha trasformato nell’ibrido che è ora, ovvero colui che si fa chiamare “il barone”; fortunatamente per raggiungere questo obbiettivo Kyle, e noi di riflesso, avrà accesso a una vastissima gamma di strumenti, sia naturali che “artificiali”.
Benvenuti a Castor Town!

Partiamo subito da Castor Town, l’ambientazione che è al centro dell’esperienza di Dying Light The Beast. Se i precedenti capitoli della saga ci avevano ambientato a città di vario genere, Castor Town rimpicciolisce l’esperienza attraverso la costruzione di un “paesotto” nascosto tra le alpi svizzere, realizzato con una cura artigianale che specie nel precedente capitolo sembrava nascosta dalle caratteristiche della generazione procedurale. Decisamente più rispetto a quanto accadeva nel recente passato, in The Beast possiamo notare un level design più curato in termini microscopici, con anche narrazione ambientale efficaci che aiuta il giocatore a immergersi nell’atmosfera.

Techland a questo giro si è impegnata molto nel riportare nel gioco alcune delle intuizioni che avevano tanto reso popolare il primo Dying Light, come il meteo dinamico che influenza parzialmente le parametrie del gameplay e, sopratutto, il ciclo giorno notte. Dying Light 2, infatti, per quanto apprezzato da parte della critica, segnava delle modifiche non apprezzate da tutti alla gestione del ciclo giorno/notte, trasformando quest’ultima dalla letale parte della giornata del primo capitolo a un momento di scarsa illuminazione in cui comunque potersela spassare. The Beast, complice anche il dover dare al giocatore dei momenti in cui mettersi “veramente alla prova”, sceglie di tornare all’ultraviolenza e all’elevata difficoltà del primo capitolo, offrendo delle notti di concreto buio, con nemici concretamente pericolosi e che richiedono un certo grado di preparazione per poter essere affrontate decentemente.
Di giorno, però, il livello di difficoltà si abbassa sensibilmente permettendo al giocatore di divertirsi con la meccanica di movimento centrale del gioco: il benedetto parkour. Rispetto al secondo capitolo della saga, Techland a questo giro sembra aver riportato i piedi del nostro protagonista Kyle Crane a terra, rendendo i salti molto meno floaty e le manovre più rischiose rimuovendo, nel contempo, i requisiti di stamina per i vari movimenti, al netto della possibilità di correggere la traiettoria dei salti mentre si è in volo. Rispetto al primo capitolo della saga il ritmo del parkour ci è sembrato senza dubbio più lento ma il livello di difficoltà è stato armonizzato in maniera intelligente; di fatto le manovre più rischiose vanno calcolate e, possibilmente, provate in contesti safe prima di poter essere realizzate in maniera corretta.
Tutto gameplay?

Anche in questo caso parliamo di risposte: se Dying Light 2 aveva lasciato da parte tutto quanto il gameplay “ranged” in favore di scontri completamente melee, con il solito crafting a offrire le possibilità di azione ai giocatori, Dying Light The Beast amplia nuovamente il ventaglio delle mosse possibile per il giocatore offrendo un numero notevole di bocche da fuoco. Il gunplay, in questo caso, è reattivo e costruito in maniera intelligente, risultando come coinvolgente senza risultare troppo semplice da usare; i colpi melee continuano a essere interessanti e soddisfacenti da usare grazie anche a un motore fisico rinnovato, che da’un impatto particolarmente soddisfacente a ogni singolo colpo dato a segno.
L’economia di gioco è rimasta praticamente immutata rispetto a DL1, con armi che si consumano e riparano come da libretto di istruzioni della saga; tra le novità in ambito armi troviamo comunque bocche da fuoco mai comparse nemmeno nel primo capitolo della saga come un lanciagranate con proiettili differenti o un potente lanciafiamme, con cui colpire grandi gruppi di nemici facendo propagare rapidamente le fiamme.

Inutile però continuare a girarci attorno: il nucleo dell’esperienza porta il nome di “modalità bestia” che permette di sfruttare a proprio vantaggio il DNA mutato el protagonista. Una volta attivata, la bestia che alberga dentro il nostro si carica e permette di accedere a tutta una serie di attacchi melee e di mosse particolarmente potenti e spettacolari, tra colpi a terra in grado di scagliare lotanissimo gli avversari o finisher incredibilmente truculente, anche più del normale livello di “gore” percepito all’interno dell’esperienza. In termini di bilanciamento abbiamo trovato la modalità bestia soddisfacente e interessante, specie in termini di varietà, ma non sembra modificare di troppo la difficoltà dell’esperienza e finisce per risultare solo “parzialmente” interessante.
Per il momento le situazioni in cui abbiamo sentito maggiormente la sua utilità sono da associare alle fughe notturne, dove quando messi alle strette abbiamo trovato nelle abilità di crowd control della bestia alcuni utilissimi alleati contro le marmaglie di avversari. Certo: tra bestia e la possibilità di guidare un veicolo, veloce e ben corazzato, la seconda ci è sempre e sempre sembrata la scelta migliore possibile da fare.
Ehi, bella grafica!
Abbiamo provato Dying Light The Beast su computer con una build abbastanza carrozzata, se non fosse per un processore non abbastanza “scafato” per poter gestire la mole di nemici a schermo degli avversari (i requisiti parlavano di un 5800X, noi avevamo soltanto un 5600X). Nonostante questo ci siamo trovati davanti a un videogioco tecnicamente molto solido, che non ci è crashato misteriosamente sotto le mani e che da un punto di vista prettamente prestazionale ha sempre saputo il fatto suo, ricompensandoci con un colpo d’occhio impressionante.
Merito del non utilizzare Unreal Engine 5? Non lo possiamo dire con certezza ma abbiamo i nostri sospetti; al netto di qualche pop-in degli zombie (che a schermo possono essere davvero tanti), il mondo costruito da Techland, con Castor Woods in prima linea, ci è sembrato interessante, affascinante e capace di rimanere nel cuore dei giocatori per molto, molto tempo, specie se vi piace l’ibrido tra action e horror con cui la saga si è resa famosa.
Conclusioni
Dying Light The Beast è una risposta detta al volume giusto e con le parole giuste a tutti quei giocatori che non hanno apprezzato il secondo capitolo, riprendendo parte del DNA di ciò che tutti hanno apprezzato della saga di Dying Light e ponendo gli accenti nel punto giusto. Tecnicamente solido, visivamente splendido, ludicamente coinvolgente, The Beast non riuscirà plausibilmente a conquistare una “nuova” playerbase ma riuscirà a riconquistare chi non ha apprezzato il precedente capitolo della saga grazie a tante piccole scelte giuste.
Voto finale: 8

