Persona 5 – Recensione

Recensione di Gianluca “DottorKillex” Arena

Tra i titoli più attesi di un 2017 fin qui scoppiettante, nonostante il calendario dica che non siamo nemmeno ad aprile, Persona 5 arriva, dopo (troppi) anni di attesa, a rinverdire i fasti del quarto capitolo, da moltissimi ritenuto uno dei migliori giochi di ruolo giapponesi di tutti i tempi.

Gli anni passano per tutti, però, e sebbene i JRPG vivano una seconda giovinezza, garantita dall’ibridazione con molti altri generi videoludici, Atlus non poteva pensare di riproporre senza modifiche la formula del predecessore, per quanto vincente potesse essere.

Le novità, allora, non mancano, eppure la sensazione di tornare a casa dopo tanti anni è forte per tutti coloro che hanno speso centinaia di ore con i capitoli precedenti, soprattutto il terzo  ed il quarto.

Se volete sapere se siamo dinanzi al miglior gioco di ruolo nipponico della libreria dell’ammiraglia Sony, insomma, non vi resta che continuare a leggere.

Un manipolo di ribelli

Persona 5 racconta l’età più difficile, quella di mezzo, quella in cui non si è ancora né carne né pesce, sospesi tra gli strascichi dell’infanzia e le responsabilità dell’età adulta.

In una sola parola, l’ultima fatica di Katsura Hashino racconta l’adolescenza, il modo dei giovani di affrontarla, le difficoltà, le opportunità e i legami con i coetanei, le ingiustizie reali e quelle solo percepite: come e più dei titoli della serie che l’hanno preceduto, Persona 5 si fa latore di tematiche quanto mai attuali, diviso com’è tra un iperrealismo calato nella quotidianità contemporanea giapponese e i simbolismi mistici che hanno sempre caratterizzato il brand.

Il giocatore veste i panni di un ragazzo introverso, trovatosi al posto sbagliato nel momento sbagliato, che ha preso una decisione all’apparenza nobile ma che ha finito solo con il procurargli guai: dopo aver difeso una vicina di casa dalle molestie di un alticcio sconosciuto, si è visto accusato di violenza e lesioni e, oltre ad essere stato espulso dalla scuola che frequentava, è costretto a scontare un anno lontano da casa, sotto la tutela di un amico di famiglia, privato degli affetti e della sua vita di tutti i giorni.

Non tutto il male viene per nuocere, però, perché al suo arrivo a Tokyo dalla provincia, il nostro scopre che Sagura-san, il ristoratore che si è offerto di dargli un tetto, non è poi così insensibile e duro come vuole far credere e, nonostante la sua fama lo preceda, gli studenti della Shujin High School non sono poi così diffidenti nei suoi confronti, in particolare Ryuji, biondo e scapestrato, ma dal cuore tenero.

L’elemento soprannaturale, tipico della serie, non tarderà a palesarsi, e con esso personaggi noti (l’amletico Igor su tutti) e i Persona, rappresentazioni fisiche delle emozioni umane, che consentono di accedere ad un piano differente da quello reale, dove il nostro assume una nuova identità e mirabolanti nuovi poteri.
Le frecce nell’arco di Persona 5 sono innumerevoli, e colpiscono tutte nel segno.

La caratterizzazione dei personaggi, tanto per cominciare, è eccellente, e difficilmente, alla fine della lunghissima cavalcata che porterà ai titoli di coda, il giocatore non se ne sarà invaghito, proprio come farebbe per dei nuovi amici nel mondo reale.

L’ambientazione si dimostra da subito azzeccatissima, con quel misto di triviali azioni quotidiane, tecnologia portatile e alienazione che solo una grande metropoli come Tokyo sa restituire; l’intreccio in sé stupisce per la maturità e l’attualità dei temi trattati, dal malessere di vivere al bullismo, passando per abusi sessuali e di potere, a comporre un puzzle stratificato e complesso.

Il tocco di classe più evidente, primo a palesarsi non appena scomparso il logo Atlus in apertura, è lo stile di cui tutta la produzione è impregnata: dai menù alla transizione tra combattimenti e fasi di esplorazione, dalla rappresentazione dei combattimenti ai movimenti di camera durante le mosse speciali, Persona 5 è uno spettacolo di colori, disegni ed animazioni, uno dei JRPG più invitanti di tutti i tempi dal punto di vista della direzione artistica, della qualità del tratto, della cura per i dettagli.
Semplicemente strabiliante.

 

Due facce, una medaglia lucente

Il gameplay dell’ultima fatica Atlus è diviso, esattamente come quello degli immediati predecessori, in due fasi ben distinte eppure intimamente interconnesse, in cui le scelte del giocatore nella prima, ovvero quella di vita quotidiana, hanno effetti tangibili nella seconda, quella di dungeon crawling.
Nella prima delle due, Persona 5 gioca di ruolo nel senso più puro del termine: il giocatore vive in prima persona la quotidianità di un sedicenne nel Giappone contemporaneo, fatta di messaggistica istantanea, di amicizie, di esami da sostenere e di tempo libero da impiegare a piacimento: sebbene non con questo nome, tornano quindi i social link che avevano contribuito al successo di Persona 4, visto che stringere rapporti di amicizia con un gran numero di personaggi consente non solo di accedere a Persona sempre più potenti, ma anche di godere di sottotrame e dialoghi opzionali, che restituiscono uno spaccato ancora più particolareggiato del cast di protagonisti.
Ogni azione intrapresa durante queste fasi ha ripercussioni ben precise sulla crescita del personaggio e sulle fasi più prettamente ludiche del titolo: rispondere bene ai quesiti dei professori in aula accresce la conoscenza, andare al cinema a vedere un film drammatico migliora la gentilezza e costruire svariati oggetti aumenta la manualità del protagonista, giusto per portare qualche esempio.
Con questo sistema, ogni dialogo non necessario, ogni giro in città, ogni minuzia possono rivelarsi fruttuosi e generare benefici nel medio e lungo periodo: al di là della qualità della scrittura, Atlus riesce a coinvolgere così facendo il giocatore in tutte le sfaccettature del ricco universo narrativo della serie, svincolando, nel contempo, la crescita del party dalle sole dinamiche di combattimento.

Vivere ventiquattr’ore al giorno nei panni del protagonista, condividendone anche bisogni primari generalmente ignorati in ambito videoludico (dalla fame alla necessità di prendere una boccata d’aria a notte fonda) aumenta enormemente il grado di immedesimazione e, sebbene molte delle risposte multiple presenti portino al medesimo risultato, a differire è la percezione che gli altri personaggi non giocanti hanno del protagonista, e, quindi, del giocatore, che può imprimere una personalità ben precisa al suo avatar.

Il rovescio della medaglia è rappresentato dalle fasi più classiche ed immediatamente riconducibili a due generi videoludici, quello dei dungeon crawler e quello dei JRPG: una volta avuto accesso al Multiverso, il giocatore viene messo al timone di un party di quattro personaggi, chiamati a destreggiarsi all’interno di dungeon di due tipi.

Gli uni, quelli legati alla trama principale, sono costanti nel loro layout e vantano un level design enormemente migliorato rispetto a quelli del capitolo precedente, grazie all’aggiunta di semplici fasi platform, di un maggior numero di enigmi e di una certa verticalità.

In questi è fondamentale non farsi scrutare: prendere un avversario alla sprovvista consente di usufruire sempre dell’iniziativa in battaglia, e tiene basso un contatore di allerta al cui riempimento il giocatore è costretto ad abbandonare momentaneamente il dungeon.

Gli altri, invece, piani generati randomicamente di un enorme dungeon chiamato Mementos,  sono parenti stretti di quelli visti negli altri episodi del franchise, con un livello di dettaglio piuttosto basso e un buon numero di nemici pronti ad attaccare il giocatore a vista: legati perlopiù alle quest secondarie, questi consentono di sfogarsi in combattimento praticamente in ogni istante, affidando i ritmi di gioco nelle mani dell’utente.

In entrambi i casi, il combat system ricalca quello tipico della serie, con la necessità di trovare i punti deboli dei nemici per approfittarne, garantendosi così uno o più turni addizionali e minimizzando gli sforzi: l’esplorazione è graduale, con una serie di stanze di salvataggio che si sbloccano progressivamente, alle quali è poi possibile teletraspostarsi per riprendere esattamente da dove si era lasciato in sospeso.

La forza del combat system risiede nella sua praticità, nel fatto che unisce delle basi estremamente intuitive, di facile apprendimento dopo pochi minuti, a dei risvolti strategici mica da ridere, tra cui la possibilità di passare il turno guadagnato ad un compagno di battaglia dopo aver colpito una debolezza elementale nemica o quella di intrattenersi in conversazioni sui massimi sistemi con i demoni, nella speranza di arruolarli o di guadagnarci soldi o oggetti.

Il sistema di fusione consente poi di creare demoni sempre più potenti, personalizzandone le abilità e potenziandone alcuni aspetti in luogo di altri: i veterani della serie sapranno esattamente cosa aspettarsi, ma anche i neofiti avranno bisogno solamente di un paio d’ore per sentirsi completamente a loro agio.

Difetti? Manca la localizzazione italiana, cosa che non sorprenderà i fan di vecchia data di Atlus ma potrebbe far storcere il naso ai meno abili con la lingua d’Albione, abbiamo incontrato un paio di picchi inattesi di difficoltà, in un contesto generalmente più accomodante di altri prodotti Atlus e, in ultimo, ci sarebbe piaciuto poter personalizzare maggiormente gli altri membri del party.
Dettagli, insomma, soprattutto nell’ottica del disegno più ampio.

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Pochi poligoni, tanta bellezza

A fronte di trentuno denti uno più splendente dell’altro, ce n’è uno leggermente cariato, e preferiamo toglierlo subito: essendo stato sviluppato anche su Playstation 3, versione che però non arriverà in occidente, Persona 5 non può rappresentare il vertice della sua categoria in quanto a conta poligonale e definizione delle texture, accettabili ma assolutamente non degne di nota su una piattaforma nel pieno della sua maturità come Playstation 4.

Ciò detto, tutto il resto brilla di luce abbagliante, dalla direzione artistica, assolutamente strepitosa, alla colonna sonora, un’altra medaglia da appuntare al petto di Shoji Meguro, storico compositore della serie.
Ma andiamo con ordine.

Le prime cose che balzano all’occhio sono lo stile che trasuda da ogni schermata, con una gamma di colori ricchissima e vivace, in cui predomina il rosso dopo il blu di Persona 3 ed il giallo di Persona 4, una delle interfacce grafiche più snelle ed eleganti a memoria, che siamo sicuri verrà ripresa negli anni a venire, e un character design che aggiunge fisicità e ammoderna quello, già eccellente, visto nel quarto capitolo.

Anche le soluzioni comode, come quella di rendere i passanti delle ombre intangibili o di rappresentare i nemici nei dungeon come entità tutte uguali tra loro, che si schiudono solo al contatto con il party, sono adottate in maniera distinta, senza mai restituire l’impressione di frettolosità o di sciatteria.

Quanto finora descritto è merito tanto di Soejima-san, già al lavoro sui precedenti due episodi del franchise, quanto di Masayoshi Suto, responsabile dell’UI e dei menu: il risultato fa svettare Persona 5 tra tutti i suoi congeneri, alzando notevolmente l’asticella che già il quarto episodio aveva settato a livelli molto elevati tanto su PS2 quanto su Vita.

A questo si aggiungono delle meravigliose sequenze animate in stile anime firmate dallo studio Production I.G. (già al lavoro su Patlabor, Ghost in the Shell, diverse serie dedicate ai Pokemon), e un bestiario che pesca a piene mani dall’immaginario classico della serie ma aggiunge decine di nuovi demoni, saccheggiando la mitologia orientale ma anche quella norrena, senza dimenticare i nativi americani e la vecchia Europa.

Chiude il quadro una colonna sonora memorabile, che risulterà indigesta solamente a chi odia il pop e le chitarre: i motivi sono tantissimi, e spaziano dalle musichette da ascensore per le fasi più rilassate della quotidianità ai ritmi tambureggianti, tra rock e sintetizzatori, degli scontri all’interno del Metaverso.

Una menzione particolare per le tracce che accompagnano le boss fight: arriverete a sperare di perdere per affrontarle di nuovo e lasciare la musica in loop.
E no, non stiamo esagerando.

Commento finale

Senza inventare nulla, come una squadra di calcio che ottiene grandi vittorie adottando un modulo di gioco assai conosciuto, Persona 5 ghermisce lo scettro di miglior JRPG di questa generazione di console, crogiolandosi nell’abbacinante bellezza della sua direzione artistica, nella solidità di un combat system che non ha più bisogno di presentazioni e nella peculiare quanto riuscita alternanza tra gioco di ruolo classico e simulatore di relazioni sociali.

Se nutrite anche solo un vago interesse per il genere di appartenenza, per la cultura giapponese contemporanea, per i videogiochi realizzati con cura certosina, allora siete candidati ideali per spendere le prossime settanta ore della vostra vita tra i corridoi della Shujin High School.