Doom – Recensione

Recensione di Gianluca “DottorKillex”Arena

Non contenta di aver riportato in scena la saga di Wolfenstein, che, ripescata dal dimenticatoio, ha sfornato due episodi di pregevole fattura in poco più di due anni, Bethesda  ha aumentato la salivazione degli appassionati di sparatutto in prima persona annunciando il reboot di Doom, quello che da molti viene considerato (e a ragione, aggiungeremmo) lo shooter per eccellenza.
Il terzo capitolo, che pure era stato apprezzato dalla critica specializzata, non aveva esaltato i fan di vecchia data, che non vi avevano ritrovato ritmi ed atmosfere tipiche dei primi due episodi.
Vediamo, allora, se e in che modo la rinascita di questo franchise merita l’attenzione tanto degli appassionati di lungo corso quanto dei neofiti.

Le porte dell’inferno

L’originale Doom non si premurava, due ere geologiche fa, di fornire al giocatore altro che un pretesto per scendere in campo, imbracciare un’arma e far scorrere, copioso, sangue demoniaco.
Erano altri tempi, e la narrazione videoludica non aveva raggiunto la piena maturità, ma la testimonianza che a Id Software interessa il gameplay e non la trama viene dal plot dietro questa versione di Doom, un cerino utile solamente ad iniziare l’incendio rappresentato dalle meccaniche di gioco.
Ancora una volta, vestiremo i panni di un anonimo marine, di stanza su una delle basi che l’umanità ha disperso per i pianeti del sistema solare (nello specifico, su Marte) alla ricerca di nuove fonti energetiche, vista la sovrappopolazione e il progressivo esaurimento delle risorse naturali del nostro pianeta madre.
Con una trovata che ben si confà alla natura umana, gli ingegneri non hanno trovato di meglio che sfruttare ed incanalare l’energia proveniente dagli inferi, una fonte potenzialmente infinita ma altrettanto pericolosa: basta una testa calda, infatti, che qui prende il nome e le sembianze di Olivia Pierce, per mettere un piede nella porta e tenerla aperta, dando il via ad una vera e propria invasione demoniaca sul pianeta rosso.
Il nostro stesso alter ego vive i suoi primi istanti legato ad un tavolo sacrificale, in una stanza piena di candele e con al centro un pentagramma, ma riesce a liberarsi e sfracellare i crani a due demoni di basso rango, prima di scoprire di essere l’unico umano in vita sull’intera installazione, a fronte di legioni di demoni di varia natura.
Il plot, semplice e direttamente collegato a quello dell’episodio originario, rimane sempre in background, senza mai interferire con il ritmo e le meccaniche di gioco, lasciando il giocatore libero di dedicarsi al massacro senza grosse implicazioni narrative.
Nessuno attendeva il ritorno dello sparatutto della software house texana per il complesso arco narrativo, e, quindi, nessuno rimarrà deluso, ma ci preme sottolineare la buona qualità del doppiaggio e la generosità delle descrizioni e dell’enciclopedia interna al gioco, che offre tantissimi dettagli a coloro che vorranno esplorare i menu per prendere fiato tra una sparatoria e l’altra.

Chi si ferma è perduto

Pad alla mano, Doom è ipercinetico, brutale, rapido, violento, labirintico: un trionfo di game design vecchia scuola, con le stanze che si chiudono finché non sono state ripulite da tutti i demoni al loro interno, salute che non si rigenera, armatura da raccattare a pezzi in giro per gli stage e, soprattutto, un numero di proiettili abbondante, ma finito.
Ognuna di queste scelte richiama il titolo che fu, e cozza terribilmente con la direzione intrapresa dal genere nell’ultimo decennio, con tutto ciò che ne consegue: coloro che hanno giocato all’episodio originale, o, più in generale, hanno passato i trenta, apprezzeranno il ritorno alle origini, a meccaniche tanto semplici quanto assuefacenti, ad una velocità che rasenta il motion sickness in certi frangenti.
Allo stesso tempo, coloro i quali sono cresciuti a pane e Call of Duty, alternando gli sparatutto Activision con qualche occasionale puntatina a Battlefield, si troveranno spaesati, incapaci di ritrovare gli stilemi cui sono abituati, frustrati da un livello di sfida discretamente impegnativo già al secondo dei tre livelli di difficoltà selezionabili alla prima partita.
Serviva coraggio per riproporre soluzioni di game design da molti ritenute antiquate, e ne serviva ancora di più per proporre alle masse un prodotto incurante degli sviluppi (ammesso che siano davvero tali) cui gli sparatutto in prima persona sono andati incontro: Bethesda ed Id Software hanno dimostrato di averne in quantità industriale, raggiungendo livelli qualitativi (e di divertimento) persino superiori a quelli, già ottimi, toccati da MachineGames con il ritorno sulle scene di BJ Blazkowicz.
Doom è un miscuglio brillante di livelli in cui è facile perdere la bussola (la Fornace su tutti), di esecuzioni corpo a corpo tanto spettacolari quanto utili ai fini del gameplay, visto che i nemici uccisi in questa maniera rilasciano sfere che ripristinano la salute, di un arsenale vario e sfaccettato, ampiamente personalizzabile dal giocatore, che può scegliere come spendere i punti guadagnati con la carneficina, tra modifiche e potenziamenti.
Il backtracking è costante, ma mai troppo invasivo, i nemici, che pure non sembrano mossi dalla più aggraziata delle intelligenze artificiali, sono in soverchiante superiorità numerica ed attaccano con una ferocia sconosciuta ai soldati nemici che popolano gli shooter della concorrenza, e il piacere sadico che si prova nel decapitarli, mutilarli o farli esplodere in mille frattaglie rosse è lo stesso di ventitré anni fa: basterebbe questo per promuovere il gioco senza troppe riserve.
Di più: sfide sparse per i livelli, utili a cimentarsi con condizioni particolari e limiti di tempo stringenti, collezionabili infilati negli angoli più reconditi delle mappe, che sbloccano finanche livelli tratti dal titolo originale del 1993, un sistema di upgrade anche per l’armatura, che aggiunge una sottile vena ruolistica alla produzione, e la possibilità, alla pressione del tasto X, di sfoderare la mai dimenticata motosega e tingere le pareti di rosso.
In questo reboot, insomma, c’è tutto quello che i fan più accaniti dell’originale speravano di trovarci, senza troppe concessioni alla concezione moderna di sparatutto in prima persona né alla dittatura di cover system, salute autorigenerante e intermezzi narrativi a spezzare i forsennati ritmi di gioco.
Certo, ci sono anche cose, che, pur in linea con lo spirito della produzione e del franchise, ci sono piaciute meno: la distruttibilità degli ambienti è quasi nulla, la varietà delle location lascia a desiderare e, come anticipato, le routine di I.A. che governano le orde demoniache non sempre si dimostrano al passo con l’ottima qualità complessiva, ma anche queste pecche, per quanto la produzione si sarebbe giovata della propria assenza, fanno molto Doom.
Ci hanno convinto poco anche alcune fasi di platforming, quando utili a raggiungere bonus e segreti e quando invece necessarie per l’avanzamento nella campagna: per quanto l’arco di salto sia generoso e si entri presto in possesso della runa del doppio salto, in un titolo in prima persona il platforming risulta sempre macchinoso e poco intuitivo.

Una scheggia

Come per quello narrativo, il comparto tecnico di Doom è assolutamente asservito allo scopo di favorire il gameplay, sovrano della produzione: su Xbox One, la risoluzione e il dettaglio grafico scalano a seconda della distanza del giocatore dagli oggetti (compromesso molto utilizzato negli ultimi tempi sulla console Microsoft), e le texture di superficie risultano altalenanti, proponendo scorci di grande impatto ma anche qualche ambiente anonimo, soprattutto all’interno dei corridoi della base, in cui si svolgeranno molte delle missioni che compongono la campagna single player.
Non ci sentiamo di criticare questa scelta, anzi: il framerate rimane ancorato ai 60 fps per la stragrande maggioranza del tempo, con cali sporadici e comunque mai sotto i 45-50 fps, valori più che accettabili considerando che l’ammiraglia Microsoft rappresenta la piattaforma meno performante delle tre su cui il titolo è approdato.
Ad allungare la già ottima longevità, troviamo poi innumerevoli modalità multiplayer, tutte provenienti direttamente dal passato degli sparatutto in prima persona: dal classicissimo Deathmatch a squadre fino alla modalità Via della Guerra, dove la zona da presidiare è in perenne movimento, il punto del multigiocatore, come per la campagna, è non fermarsi mai, rendersi un bersaglio difficile e sfuggente, alla faccia della staticità di moltissimi congeneri recenti.
Le prove, effettuate dal giorno di lancio fino a poche ore prima di pubblicare questa recensione, non hanno evidenziato lag o problemi di rete, nonostante il grande afflusso di giocatori, tipico delle ore immediatamente successive al lancio.
Ulteriore contorno ad una portata quantomai abbondante è la modalità SnapMap, accessibile dal menu principale, tramite la quale è possibile creare e condividere mappe con un editor invero non troppo intuitivo ma discretamente completo, che, soprattutto su PC, potrebbe dare vita ad una comunità molto estesa: a poche ore dal day one, è già possibile cimentarsi con una manciata di creazioni di altri giocatori.
Insomma, anche dal punto di vista della quantità, risulta difficile non promuovere l’ultima fatica di Id Software.

Commento finale

Doom è tutto ciò che avrebbe dovuto essere, e anche di più: gli ingredienti dell’originale sono presenti senza eccezioni, ed amalgamati in maniera tale da produrre uno degli sparatutto più adrenalinici e viscerali degli ultimi quindici anni, lontano anni luce dagli standard fissati dall’industria nel frattempo.
Se avete giocato ed apprezzato l’originale ed il seguito, compratelo senza pensarci troppo, ma se siete cresciuti a pane e Call of Duty sappiate che qui troverete molta meno accondiscendenza e molta meno staticità, e fatevi i vostri calcoli.
In ogni caso, se tutte le software house trattassero i propri brand con l’amore ed il rispetto dimostrati da Id Software per il materiale originale, il pubblico non impallidirebbe ogni volta che sente pronunciare la parola “reboot”.