Sword Art Online: Lost Song – Recensione

Recensione di Gianluca “Dottor Killex” Arena

Dopo l’esperimento solo parzialmente riuscito con RE: Hollow Fragment, rilasciato in Europa solamente tre mesi fa, Bandai Namco torna sul luogo del delitto, proponendoci un nuovo tie-in di una delle saghe più apprezzate e seguite in Giappone.
Sword Art Online: Lost Song si svolge in un’area inedita del mondo di gioco di Alfheim, e permette, per la prima volta nella serie, di creare un personaggio da zero, aumentando così il fattore immersione.
Basterà questo, e una storia scritta appositamente, per rendere il titolo appetibile a tutti coloro che sono rimasti parzialmente delusi dal capitolo precedente?

Troppi fili da riavvolgere

Se già i fan dell’anime si lamentano spesso di come la trama sia eccessivamente intricata e spesso di difficile lettura, immaginate quanto possa capirci un appassionato di JRPG che non ha però dimestichezza con la storyline principale di Sword Art Online.
Nonostante la storia narrata in Lost Song sia stata scritta appositamente per l’occasione, risultando quindi slegata dagli avvenimenti canonici della serie, la chiarezza e la linearità non sono esattamente il suo forte: stavolta Kirito e il suo harem di splendide ragazze si trovano a girovagare per Alfheim Online, una gioco di ruolo massivo che, apparentemente, non vincola i corpi dei suoi ospiti (minacciandoli di morte) come quello che i fan della serie sono stati abituati a frequentare.
Adesso, si gioca ad un videogioco nel videogioco, e si compete con una gilda di nome Shamrock senza che, però, la posta in gioco sia la propria vita.
Il tutto avviene diverso tempo dopo gli accanimenti narrati nel precedente Hollow Fragment, lasciando quindi intuire che il nostro e i suoi amici sono riusciti ad uscire vivi dalla precedente, terribile esperienza, e che, nondimeno, non hanno abbandonato l’abitudine di frequentare MMO, da veri fan del genere.
Tanto quanto questo genere di riferimento, verso il quale si sprecano gli omaggi, la qualità dell’intreccio e i rapporti tra i personaggi non sono esattamente il punto di forza della produzione, soprattutto a causa di una verbosità diffusa, di personaggi introdotti malamente, dando per scontata la loro conoscenza da parte del giocatore, e situazioni già viste in prodotti simili.
Esattamente come si farebbe con un qualsiasi gioco di ruolo multigiocatore in rete, quindi, non ci si tufferà nel mondo di Alfheim Online per il gusto di scoprirne la storia ed i personaggi, quanto piuttosto per vivere decine di ore di avventura in un mondo il più possibile aperto e vasto, e da questo punto di vista, l’ultima fatica Bandai Namco risulta discretamente godibile, rappresentando un evidente passo avanti rispetto al titolo uscito in Europa solo la scorsa estate.

Nuove dinamiche

Proprio dal punto di vista del gameplay Lost Song propone soluzioni inedite per la serie (videoludica), rivoluzionando il sistema di combattimento, allargando la mappa di gioco e introducendo la possibilità di volare, tutte aggiunte mirate a dare al giocatore una maggiore libertà e un migliorato grado di intuitività.
Partiamo dal combat system, che passa dal citare gli MMO, con l’attacco base automatico e la scelta di una serie di abilità, ognuna dotata di un tempo di cooldown, all’azione in tempo reale, facendo corrispondere ogni tipologia di attacco ad uno dei tasti fisici di PS4: nonostante lo spettro del button mashing sia sempre dietro l’angolo, soprattutto durante le prime ore di gioco, quando il numero di abilità sbloccate è ancora limitato, la soddisfazione e la fisicità sono sicuramente accresciute rispetto a Hollow Fragment grazie a questa scelta di design, seppure meno in linea con la natura di “finto” MMO cui il titolo aspira.
Non che il nuovo combat system sia scevro da difetti, visto che le collisioni lasciano spesso a desiderare e la varietà di attacchi è tutt’altro che entusiasmante, ma la scelta di avvicinare i combattimenti alla maggior parte degli action rpg sul mercato, in fin dei conti, paga, soprattutto perché permette di lasciarsi alle spalle la sensazione di passività che spesso faceva capolino durante le ore di gioco nel precedente capitolo.
La rinnovata estensione della mappa di gioco, che consente di scorrazzare più o meno liberamente per tutte e sette le macroregioni che si sbloccheranno con il progredire della trama, va a tutto vantaggio della libertà di esplorazione e del gusto della scoperta del giocatore: anche qui, come per il sistema di combattimento, non è che questi cambiamenti portino il gioco a rivaleggiare con i congeneri migliori (scordatevi il grado di esplorazione concesso da un qualsiasi The Witcher 3, giusto per intenderci), ma vanno nella direzione giusta, lasciando che sia il giocatore a ritmare i tempi della sua progressione.
Il meglio che il gioco ha da offrire lo si ottiene alternando le quest principali alle secondarie (disponibili in buon numero), andando a scovare dungeon nascosti nelle pieghe della mappa e perfino accompagnando le scorribande in single player con quelle in multiplayer online, disponibili al completamento del primo dei mondi di gioco.
Nonostante dungeon abbastanza spogli e ripetitivi, in cui il massimo dei puzzle è rappresentato dal dover rinvenire una chiave o premere un interruttore, la sacra triade composta dal combattimento, l’acquisizione del loot e un nuovo combattimento durante il quale equipaggiare il loot appena ottenuto funziona ancora discretamente.
A completare il quadro delle novità, la possibilità di librarsi in volo in una doppia modalità: con una ci si allontanerà dal suolo solo di pochi metri, in modo da continuare a combattere i nemici avendo però un vantaggio strategico non indifferente, mentre nell’altra si potranno raggiungere altezze anche ragguardevoli, con ripercussioni positive tanto sulla velocità degli spostamenti da un lato all’altro della mappa quanto sulla possibilità di apprezzare qualche scorcio ispirato, sebbene il comparto tecnico non sia di primissimo livello.

PS3 style

Come detto, l’aspetto tecnico della produzione è deboluccio: al di fuori di un piacevole effetto blur durante le fasi di volo in alta quota e una direzione artistica non ispiratissima ma comunque apprezzabile, poco altro riesce a ricordare all’utente che sta giocando con una Playstation 4 e non con la console che l’ha preceduta: i modelli poligonali sono abbastanza basici, e animati senza troppo brio, mentre le texture alternano buoni momenti a scenari palesemente in bassa risoluzione.
Dispiace anche che la stragrande maggioranza delle cutscene, incluse alcune di quelle fondamentali per lo sviluppo della trama, vengano raccontate tramite talking heads e non con adeguate scene animate, che avrebbero potuto prendere in prestito le movenze degli anime, così amati e riconoscibili per tutti i fan di Sword Art Online, che poi rappresentano la fetta di pubblico a cui questa produzione si indirizza in maniera nemmeno troppo velata.
Per vedere i titoli di coda, poi, vanno messe in conto tra le venti e le trenta ore, a seconda del numero di quest secondarie in cui deciderete di imbarcarvi.

Commento finale

Nonostante rappresenti un passo avanti rispetto al recente Hollow Fragment, soprattutto in termini di coinvolgimento e libertà di azione, Sword Art Online: Lost Song rimane un JRPG  “solo” discreto, affossato dalla ripetitività dei dungeon, da una trama che ondeggia tra l’incomprensibile ed il noioso e da u comparto visivo degno di una PS3.
Ci sono però anche cose che funzionano, come un sistema di combattimento frenetico, per quanto poco profondo, e la possibilità di volare, tanto rara quanto apprezzabile nei giochi di questo tipo.
Decisamente consigliato agli appassionati del prodotto originale, ma anche chi non conosce il mondo di Sword Art Online ma ama i giochi di ruolo di stampo giapponese potrebbe dargli una possibilità.