Prince of Persia: Recensione

Recensione di Giovanni Bellocchio

Prince of Persia è disponibile per PC, PlayStation 3 e Xbox 360.
La versione testata è quella per Xbox 360.

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Il Principe è tornato. Premere il tasto appropriato per continuare a leggere

Pochi titoli hanno la capacità di far salire le lacrime agli occhi dei giocatori più stagionati come Prince of Persia. Il debutto del 1989, ad opera del creatore di Karateka Jordan Mechner, fece scalpore esibendo un sistema di animazioni rotoscope che consentiva una fluidità d’azione senza precedenti. Il gioco incontrò un grande successo e nel ’93 ne venne prodotto un seguito: The Shadow and the Flame ma non ebbe le stesse fortune, e Mechner lasciò la serie; lo ritroveremo in seguito a firmare un altro cult dell’era 16-bit, The Last Express, purtroppo senza mai incontrare il favore del grande pubblico. La mancanza d’ispirazione penalizzò fortemente i due Prince of Persia successivi (contando un misconosciuto episodio 3D) e la serie scivolò nel dimenticatioio. Avanti veloce al 2002: ai piani alti si decide che è il momento di riavviare la serie, viene arruolato Mechner. Non siamo più negli anni ottanta, ora si tratta di giocare fuori casa contro Tomb Raider e soci. Mechner tira fuori dal cappello il geniale meccanismo di controllo temporale che consente al giocatore di rallentare il flusso dell’azione fino a un vero e proprio ‘rewind’. Il risultato supera ogni aspettativa, e Prince of Persia: Sands of Time – come il suo trisnonno quindici anni prima – diventerà un punto di riferimento del neonato millennio videoludico. Sfortunatamente il grande pubblico gli volta le spalle e questa volta Mechner se ne va, abbandonando l’industria dei videogiochi. Di nuovo la storia si ripete: i due successori di Sands of Time stentano a eguagliare la qualità del predecessore e l’ultimo capitolo The Two Thrones viene pubblicato nell‘indifferenza generale.

Un nuovo inizio. Premere START per cominciare

2009: esce Prince of Persia, senza sottotitolo, la storia entra nell’era del next-gen. Il Principe abbandona gli atteggiamenti emo dei due precedenti episodi recuperando l’ironia che lo caratterizzava all’epoca di Sands of Time. E’ un Principe scherzoso e chiacchierone, un po’ Bruce Willis un po’ Eddie Murphy, il compagno di classe somaro ma che faceva ridere tutti e vinceva sempre durante le ore di educazione fisica. Smarrito in una tempesta di sabbia, il nostro protagonista s’imbatte nella principessa Elka, in fuga dai soldati di suo padre. Un Principe che si rispetti non può resistere al richiamo della classica fanciulla in pericolo: finisce così coinvolto nella missione di Elka, il cui regno è stato oscurato dalle tenebre del malvagio dio Ahriman. L’insolita coppia, lei una regale principessa, lui che rinnegando ogni nobiltà si dedica al mestiere di tombarolo, dovrà battersi contro i servi di Ahriman per restituire il regno all’antico splendore.
La vicenda abbandona i complicati intrecci di un tempo, lasciandosi alle spalle balzi temporali e malvagi alter ego. Sicuramente ci guadagna in accesssibilità, ma a conti fatti il gioco ci presenta una situazione in cui le cose interessanti sono già accadute. Come se una volta finito l’epico scontro tra divinità ci venisse consegnato secchiello e ramazza, “adesso voi mettete a posto per favore”. Esiste un fascino nel ricostruire pezzo per pezzo una vicenda passata, ma dal momento che l’esposizione viene affidata esclusivamente ai dialoghi tra Elka e il Principe, ben presto la noia si fa sentire.
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Al lavoro. Premere A per effettuare un balzo

PoP si identifica chiaramente come il classico platform con visuale in terza persona. Possiamo saltare, correre e arrampicarci sui muri, volteggiare in spericolate acrobazie. Elka ci accompagna per tutto il corso della nostra avventura: la sua presenza ci aiuta a navigare tra le architetture orientaleggianti che ben conosciamo, grazie alle arti magiche ci permette di spiccare un secondo salto a mezz’aria, ma soprattutto ci impedisce di morire. E’ questa la novità più importante – e la maggiore fonte di sconcerto – nel nuovo PoP: già in passato il famoso rewind poteva salvarci da una caduta letale o uno sfortunato combattimento, ma tale abilità era limitata e vincolata alla nostra capacità di ricaricarla: faceva parte integrante delle meccaniche di gioco. Al contrario, i provvidenziali poteri magici di Elka ci teletrasportano immancabilmente all’ultima piattaforma sicura – solitamente a qualche secondo dal luogo del fattaccio. Con conseguenze rovinose dal punto di vista della giocabilità, poiché una volta rimossa ogni possibile fonte di frustrazione in un gioco viene a mancare anche il potenziale di sfida. Allo stesso tempo ci troviamo alle prese con un livello di difficoltà assurdamente basso, dove al giocatore non viene richiesta alcuna abilità per proseguire.

Arriva un nemico. Premere X per attaccare

Problemi analoghi affliggono le sequenze di combattimento. Nessuno ha mai considerato PoP un degno rivale di God of War o Devil May Cry in questo campo, ma stavolta si esagera. Durante gli scontri (per fortuna rari e circoscritti), possiamo attaccare con la spada, usare gli attacchi magici di Elka, effettuare prese oppure semplicemente parare i colpi dell’avversario. Queste tre mosse di base possono venire concatenate in combo più o meno efficaci; dal momento che ogni attacco o combo è già disponibile fin dall’inizio, la tecnica di combattimento non può subire evoluzioni o miglioramenti. Semplicemente impariamo a memorizzare quando un nemico è immune a una delle tre tipologie di attacco e ci si regola di conseguenza.
I nostri nemici, che si riducono essenzialmente a quattro boss più un paio di scagnozzi, si fanno sempre più difensivi dando luogo a scontri sempre meno coinvolgenti. Nei rari casi in cui ci troviamo in difficoltà scatta l’immancabile quicktime event (leggi: premi il pulsante giusto quando te lo dico io): in caso di successo il combattimento riprende senza conseguenze, altrimenti interviene Elka a salvarci le penne restituendo però una cospicua fetta di energia al nemico. Anche alla fine del gioco riusciamo a superare ogni difficoltà, sempre, senza il minimo impegno: PoP semplicemente si lascia giocare, un passatempo passivo e innocuo.

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Ammirate il panorama. Non premete nulla

Dal punto di vista grafico ci troviamo davanti a uno dei giochi più spettacolari mai realizzati. E’ una vera sofferenza trovarsi davanti a una vera e propria opera d’arte, qualcosa che avrebbe potuto uscire dalla matita di Miyazaki tale è la cura che emerge dal più piccolo particolare. Prince of Persia non cerca il realismo ricalcando pedissequamente la verosimiglianza della messa in scena, bensì adotta uno stile pittorico semplicemente perfetto per l’ambientazione. Come un dipinto ad acquerello che prende vita, pronto ad aprirsi su scenari ampi e dettagliati senza alcuna esitazione.
Se vogliamo fare un paragone potremmo pensare agli svolazzi di Okami, ma portati a livelli impressionanti. E questo prima ancora le cose comincino ad muoversi. Il team viene dall’esperienza di Assassin’s Creed, ritroviamo la stessa fluidità e naturalezza nelle animazioni che ci porta a non dubitare nemmeno per un istante delle acrobazie più incredibili. A voler cercare un difetto, potremmo segnalare una certa mancanza di espressioni facciali che penalizza le numerose scene di dialogo, ma si tratta di un dettaglio certamente trascurabile. L’ambientazione sonora svolge diligentemente il suo compito, forte di un doppiaggio italiano di buona qualità.

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La fine? O un nuovo inizio?

Difficile fare i conti col passato. Stiamo parlando di una serie dalle radici profonde quasi vent’anni e una storia turbolenta alle spalle. A chi legge potremmo consigliare di guardarsi schermate e video di quest’ultimo capitolo per poi procurarsi Sands of Time o il remake del capostipite disponibile su Live Arcade, per rendersi conto di cosa poteva essere il nuovo Prince of Persia se solo avesse osato un poco. Ma bisogna anche saperlo giudicare semplicemente per quello che è: un gioco assolutamente strabiliante dal punto di vista tecnico ma incapace di appassionare.