Crash Back | #aDevStory

Pensiamo alle mascotte videoludiche degli anni ’90: cosa ci viene in mente? A me, Mario o Link per Nintendo, Sonic per SEGA, Crash Bandicoot per Sony. Tutti indomiti eroi, pronti ad affrontare terribili pericoli per salvare il Regno, la Principessa, il Mondo dai piani di qualche malvagia entità. Con un’importante distinzione da fare: a differenza di tutti gli altri, Crash Bandicoot è letteralmente un idiota. Praticamente inconsapevole di ciò che gli accade intorno, si aggira per i mondi di gioco con aria svampita, agisce solamente dietro invito/consiglio/minaccia altrui, si esibisce in ridicole danze ogni volta che riesce ad arraffare qualche oggetto prezioso o ad avere la meglio contro avversari poco più intelligenti di lui.

Prodotto di scarto di un esperimento scientifico, Crash è più che mai un guscio vuoto, sta al giocatore riempirlo con la motivazione necessaria per portare a termine l’avventura. Eppure, Crash è una delle icone videoludiche più conosciute ed amate di sempre, per lo meno in ambito PlayStation, come dimostra l’accoglienza del nuovissimo capitolo appena uscito, Crash Bandicoot 4 – It’s About Time. Com’è possibile che un personaggio così apparentemente anonimo sia entrato nel cuore di molti videogiocatori? È tempo di retrospettiva. È tempo di Crash Back.

Crash Bandicoot 1996, schermata del titolo
Tutto inizio così.

Cagnacci

Nel 1994 è dato alle stampe Way of the Warrior, un picchiaduro sviluppato per 3DO (sfortunata console dal breve ciclo vitale, nata e morta a metà anni ’90). Distribuisce Universal Interactive Studios, sviluppa Naughty Dog. La giovane software house, fondata dagli amici d’infanzia Jason Rubin e Andy Gavin, è già attiva da qualche anno, nata come JAM Software, e motivata a creare qualcosa di grande nel mondo del gaming. Way of the Warrior è pitchato a Mark Cerny, futuro lead designer di PlayStation 4 ma allora a capo della divisione sviluppo di Universal, che oltre ad accettarne la distribuzione, propone a Naughty Dog un contratto per lo sviluppo di altri 3 giochi. Il contratto è firmato, ed il team decide che la piattaforma di destinazione dei prossimi titoli sarà la neonata console Sony PlayStation.

Naughty Dog, vecchio logo.
Il primo logo di Naughty Dog. Molto sobrio.

Nascita di una mascotte

Un bandicoot per amico

Sony lancia PlayStation sul mercato giapponese a dicembre 1994 e a settembre 1995 nel resto del mondo. La nuova console è da subito un successo, ma le manca qualcosa rispetto alla concorrenza: una mascotte che si associ istantaneamente al marchio, icona di un titolo che faccia da system seller. Sony ha già fatto un tentativo, fallito miseramente, con Bubsy 3D, platform a tre dimensioni che rappresenta il primo tentativo di Eidetic (il futuro Bend Studio, cui ho dedicato un altro #aDevStory) con il 3D, che si rivela un flop colossale. Per questo motivo l’azienda giapponese ha un assoluto bisogno di rifarsi e associare una mascotte videoludica alla propria console.

Naughty Dog è determinata a raggiungere questo traguardo, e propone un platform che mischi la classica struttura 2D a scorrimento con un più innovativo impianto in 3D, in cui i livelli si sviluppino in profondità, posizionando la telecamera alle spalle dell’avatar, che ne segua i movimenti. Il protagonista è in grado di eliminare i nemici con un attacco a vortice, oppure saltare loro in testa, in pieno stile Super Mario; può inoltre raccogliere frutta sparsa per i livelli per aumentare le proprie vite, e rompere delle casse per raccogliere numerosi bonus (frutta, vite, gettoni speciali che sbloccano aree segrete, maschere protettive che evitano la morte al contatto con un nemico o un ostacolo).

Per distinguere l’eroe del gioco dalla massa di animali antropomorfi che popolavano i giochi a piattaforme dell’epoca, Gavin e Rubin optano per specie esotiche, provenienti dall’outback australiano: la scelta ricade quindi sul bandicoot, piccolo marsupiale appartenente alla famiglia dei peramele. Quello che gli manca è un nome, semplice e di immediata memorizzazione: Universal spinge per proposte come “Wez” o “Willy the Wombat”, che viene utilizzato momentaneamente prima della scelta definitiva da parte di Naught Dog: Crash Bandicoot.

Crash Bandicoot prototipo Willie the Wombat
Abbiamo rischiato si chiamasse Willy. Brrr.

Commercial Crash

Lo sviluppo procede a ritmo serrato e Naught Dog è una fucina idee: nel gioco vengono inseriti elementi rompicapo (le famigerate zone bonus), boss fights diversificate, una difficoltà sostenuta ed aumentata dalla presenza di collezionabili ottenibili tramite sfide da hardcore gamers (le Gemme, ottenibili trovando tutte le casse di frutta presenti in un livello, da completare senza mai perdere vite), gag demenziali e una colonna sonora orecchiabile ed accattivante. Nel 1996 il gioco è pronto, e per il lancio si organizza una massiccia campagna pubblicitaria, almeno negli Stati Uniti, resa memorabile dalla presenza di un uomo in costume da Crash che si aggira per le strade (con addirittura una capatina spavalda alla sede di Nintendo) per portare il lieto annuncio al mondo: è nata una nuova mascotte videoludica.

Il bandicoot privo di personalità riesce quindi ad imporsi nell’immaginario collettivo come il “rivale” di Super Mario. Più che i personaggi, tuttavia, è la qualità dei giochi a decretare il successo del franchise. Ricordo bene che la mia prima esperienza con la serie riguardò il terzo episodio (ci torneremo più avanti): le sue meccaniche ibride, il design coloratissimo e lineare dei livelli e l’estrema rigiocabilità me lo fecero subito amare. Per quanto ne so, tra tutti i miei amici possessori di PlayStation all’epoca, nessuno era a digiuno di Crash Bandicoot, in un modo o nell’altro: la sua diffusione era stata capillare, ed in questo senso l’obbiettivo di creare una killer application per la console Sony fu pienamente raggiunto.

Il contratto dice 3 giochi, giusto?

Ed ecco che, ancor prima della pubblicazione del gioco, Naughty Dog si mette al lavoro sul sequel, Crash Bandicoot 2: Cortex Strikes Back, che esce appena un anno dopo il primo gioco. Migliorato l’engine che permette una maggior mole poligonale, Crash 2 mostra un miglioramento grafico evidente rispetto al primo, ed il più alto budget a disposizione si traduce nella ricerca di un’esperienza ancor più ricca della precedente, secondo la formula “tutto meglio, con qualcosa in più”.

Le animazioni sono migliorate e Crash ha disposizione alcune azioni aggiuntive, come la panciata e la scivolata; i livelli sono ancor più vari in termini di ambientazione e design; si sperimentano nuove meccaniche di gioco, come l’assenza di gravità e la guida di veicoli; i pericoli mortali si moltiplicano, e anche se il completamento base dei livelli è forse più semplice rispetto al primo titolo, la presenza di nuove gemme nascoste rende la rigiocabilità altissima e la difficoltà di queste sfide aggiuntive a dir poco infernale. La commistione tra approccio 2D e 3D permane, e questa volta è mischiata addirittura all’interno di un medesimo livello, che costringe il giocatore ad adattarsi velocemente al cambio di prospettiva.

Crash Bandicoot 2 boss fight finale
Boss fight finale di Crash 2 a colpi di retrorazzi!

Siccome il contratto dice che non c’è due senza tre, all’inizio del 1998 cominciano i lavori al terzo capitolo. Crash Bandicoot 3: Warped sfrutta il concetto di viaggio nel tempo per presentare un’offerta ancor più variegata di locations, pur mantenendo un level design dalla struttura molto simile ai precedenti. Le novità non mancano, anche questa volta: Crash è dotato di ulteriori poteri, sbloccabili gradualmente dopo ogni boss fight; in alcuni livelli si prende il controllo di Coco, sorellina di Crash già apparsa come NPC nel secondo capitolo. Oltre alle classiche gemme si aggiungono le reliquie, ottenibili completando i livelli entro un tempo limite, con il timer che può essere momentaneamente freezato rompendo alcune casse-tempo sparse nei livelli. Compaiono nuovi veicoli, tra cui una motocicletta ed un aereo da combattimento, e ci sono ben 5 livelli segreti, sbloccabili tramite l’accumulo di collezionabili.

La difficoltà generale è comunque tarata verso il basso, rendendo il gioco sensibilmente più facile dei suoi predecessori, con il risultato di rendere il titolo accessibile a chiunque ma anche di privarlo di buona parte del senso di sfida che aveva caratterizzato la serie fino a quel momento. I livelli, inoltre, non offrono grandi novità al di fuori delle ambientazioni, correndo il rischio di apparire un more of the same di soluzioni già proposte. Per tirare le somme: il mio me stesso di allora, adora Crash 3; il mio me stesso di oggi ne vede i limiti, e lo considera il meno interessante del lotto, pur risultando ancora molto divertente da giocare (peraltro è di gran lunga il più fluido in termini di controlli ed animazioni).

Crash Bandicoot trilogia PlayStation
Una trilogia da avere.

Start Your Engines!

La trilogia è conclusa, Naughty Dog ha onorato gli impegni contrattuali regalando a Sony una mascotte ufficiosa per la sua console e una terzina da ricordare. La collaborazione è stata tanto proficua da indurre Naughty Dog a progettare un ulteriore capitolo del franchise, anche se in forma differente: se è vero che Crash è il principale competitor di Super Mario, deve esserlo fino in fondo, anche in ambito di spin-off. L’idea è quella di creare il rivale perfetto di Super Mario Kart, sfruttando l’appeal del peramele e dei suoi compagni d’avventure: inizia così lo sviluppo di Crash Team Racing (per gli amici CTR), forse il gioco PlayStation su cui posso vantare il maggior numero di ore, spese a battere i record di Oxide su ogni pista (chi conosce il gioco capirà sia la fatica sia il quantitativo di improperi necessari per raggiungere il traguardo).

Inutile dire che l’ambizione degli sviluppatori è ancora una volta raggiunta: CTR esce nel 1999, dopo soli 8 mesi di sviluppo (incredibile pensare alla rapidità di quegli anni) ed è un successo istantaneo. Il gioco offre numerose piste in cui gareggiare con personaggi dell’universo di Crash, ognuno dotato di un kart con caratteristiche proprie in termini di velocità, accelerazione e manovrabilità. I circuiti sono uno più fuori di testa dell’altro, ricchi di ostacoli e scorciatoie segrete. Nel corso della gara i giocatori possono rompere le scatole sparse in giro per dotarsi di power-ups da scagliare contro gli avversari (o scudi per proteggersi da essi), ed il controllo del kart, dotato di manovre di accelerazione in derapata e della possibilità di spiccare dei salti con il giusto tempismo, restituisce una sensazione di velocità incredibile per l’epoca.

Giocabile ovviamente anche in multiplayer, CTR era sia il perfetto party game che un’ottimo racing game single player, grazie alla presenza di una modalità storia che propone varie sfide in cui cimentarsi e trofei da ottenere. Questo fu l’ultimo gioco di Crash sviluppato da Naughty Dog: l’IP era infatti di proprietà di Universal, e quando la software house di Gavin e Rubin fu acquistata da Sony e messa al lavoro su un nuovo franchise da pubblicare sull’imminente PlayStation 2, Universal dette mandato a Eurocom di sviluppare un nuovo gioco di Crash.

Crash Team Racing, podio
Coco è forte in questo gioco. Ma io non la usavo mai. Era per donne!

Discesa libera

dalla padella…

Non vorrei essere troppo duro con Crash Bash, un party game senza troppe pretese che mi ha anche regalato qualche giornata di divertimento con mio fratello e i nostri amici. Il problema è che i minigiochi alla fine son pochi, e si ripetono con piccole variazioni o leggeri incrementi di difficoltà: si va da una specie di air hockey ad una battaglia tra carri armati con meccaniche prese di peso dai Bomberman; dallo stare in equilibrio su una lastra di ghiaccio buttando giù gli avversari, al classico rissone con casse esplosive. Nulla brilla davvero per originalità, ed il titolo, uscito nel 2000, chiude la parabola di Crash su PlayStation in fase calante, quasi un presagio dell’immediato futuro.

Il franchise fu infatti oggetto di travagliati passaggi di mano: dapprima fu affidato a Traveller’s Tales sotto supervisione di Cerny, poi dirottato su altro a seguito di accordi commerciali stipulati tra Universal e Konami. L’idea di Cerny di donare al Crash next-gen una struttura open-world fu accantonata, e lo studio dovette in tutta fretta ritornare ad un impianto più in linea con i giochi precedenti.

Il risultato di questo cambio di rotta affrettato fu Crash Bandicoot: L’ira di Cortex, sviluppato peraltro in multipiattaforma (PS2, Xbox e Gamecube), i cui unici passi avanti rispetto ai giochi della passata generazione furono l’impianto grafico e la fluidità delle animazioni. Per il resto, il gioco è un concentrato di già visto, con un’insistenza sui livelli basati sui veicoli a discapito di quelli puramente platform. Il level design di questi ultimi tra l’altro lascia parecchio a desiderare, probabilmente a causa dei risicati tempi di sviluppo, risultando genericamente vuoti e poco ispirati. Il gioco vendette piuttosto bene ma fu accolto da critiche contrastanti; personalmente ricordo di aver piantato il gioco a metà, con un generale senso di delusione. Per fortuna me l’ero fatto prestare!

Crash Bandicoot: L'ira di Cortex
Bello ma spoglio: L’ira di Cortex fu una delusione.

…alla brace…

La stella di Crash era destinata ad una lenta ma inesorabile eclissi, nonostante il tentativo di tenere in vita il franchise con port su piattaforme mobile (Crash Bandicoot XS, 2002, e Crash Bandicoot 2: N-tranced, 2003 per Game Boy Advance, seguiti poi da Crash Bandicoot Purple del 2004, mash-up con l’universo di Spyro the Dragon) ed altri titoli sviluppati negli anni successivi per console domestiche, tutti di qualità dubbia: il primo di questi è Crash Nitro Kart (2003), emulo di CTR sviluppato da Vicarious Visions, già creatori dei titoli portatili. Il racing game ha dalla sua un design dei circuiti più variegato del predecessore, ma è anche molto derivativo rispetto a quest’ultimo, e non introduce pressoché alcuna novità, anzi ricicla addirittura alcune piste (ovviamente rimodellate per i nuovi hardware).

Seguì un tentativo di reinvenzione del brand da parte di Traveller’s Tales, con meccaniche di gioco rinnovate. Anche stavolta però, i propositi innovativi degli inizi furono castrati dal publisher, che volle mantenere la produzione su binari più convenzionali: gli sviluppatori stavano concettualizzando un mondo di gioco sci-fi, probabilmente influenzati dalle neonate serie di Ratchet & Clank e Jak and Daxter. Il risultato invece fu Crash Twinsanity, il cui concept ruota attorno alla collaborazione forzata tra Crash e la sua nemesi Neo Cortex, l’esplorazione di livelli a mappa aperta e l’utilizzo di abilità combinate dei due personaggi per attaccare i nemici o risolvere enigmi ambientali. Tutte idee fresche sulla carta, ma tradotte in un level design senza guizzi ed un’esperienza di gioco piuttosto monotona, risollevata parzialmente dagli sketch comici tra i due protagonisti.

Crash Twinsanity
Twinsanity: una buona idea azzoppata dallo sviluppo affrettato.

…alla graticola

Fu poi la volta di un terzo racing game, Crash Tag Team Racing (2005), affidato a Radical Entertainment, un tentativo di focalizzare maggiormente il gameplay sul combattimento tra veicoli piuttosto che sul primato in pista, a discapito della complessità dei circuiti che vennero notevolmente semplificati. Il titolo non fu ben accolto, e ciò spinse ad un cambio di rotta, che portò Universal a tentare nuove strade per il franchise. Il primo tentativo fu affidato allo studio giapponese Dimps, che realizzò un titolo per Nintendo DS intitolato Crash Boom Bang! (2006), una sorta di variazione sull’impianto party che aveva contraddistinto Crash Bash.

Il gioco è basato su una plancia in stile gioco da tavolo, in cui il giocatore deve cercare di arrivare alla fine del percorso tirando dei dadi virtuali e risolvendo dei minigiochi presenti sulle varie caselle. Inutile dire che il gioco non ha nulla che fare con Crash Bandicoot, al di fuori dell’utilizzo dei suoi personaggi, e fu un fiasco totale. Radical Entertainment si mise quindi al lavoro su un reboot della serie, che includesse un restyling completo dei personaggi. Inoltre lavorò su una dinamica di gioco completamente nuova: la possibilità di cavalcare degli enormi nemici ed utilizzarli come arma a nostro vantaggio. Fu la premessa di Crash of the Titans, pubblicato nel 2007.

crash of the titans, nuovo design di Crash
Il nuovo design di Crash segnò quantomeno il tentativo dargli maggiore espressività.

Addio platforming, o quasi: ridotte al minimo le sezioni memori degli antichi fasti, il gioco adotta un approccio differente, per così dire hack’n’slash, consistente di grandi arene in cui avere ragione di orde di nemici, combattendoli appiedati o a prendendo i comandi di uno o più titani con cui tirare cazzotti o utilizzare abilità particolari, utili anche per superare ostacoli ambientali. Il focus è quindi maggiormente incentrato sul combattimento, con addirittura combo di attacchi sbloccabili nel corso dell’avventura. Il gioco, oltre a non brillare dal punto di vista tecnico e ad essere percepito come alieno da buona parte della fan base, fu criticato per il restyling dei personaggi, cui si tentò di conferire un look più “cool”, maggiormente adatto all’approccio fighting pensato dagli sviluppatori.

Il gioco suscitò comunque un interesse sufficiente a totalizzare vendite discrete, il che incoraggiò Activision (che nel frattempo aveva acquisito Vivendi/Universal subentrando quindi nella proprietà dell’IP) ad investire nello sviluppo di un sequel, affidato sempre a Radical Entertainment. Crash: il dominio sui mutanti uscì nel 2008, e risultò essere uno zibaldone di stili estetici, dal cartoon al disegno 2D e all’anime (espedienti dovuti soprattutto al basso budget a disposizione, che spinse lo studio ad ingegnarsi sul modo di realizzare cut-scenes a costi contenuti), mentre dal punto di vista del gameplay offrì sostanzialmente le stesse meccaniche del precedente, ampliando leggermente l’offerta in termini di abilità aggiuntive a disposizione dei titani.

Il titolo non riuscì a risollevare l’interesse dei fan verso il franchise, e il brand Crash Bandicoot cadde in un oblio durato quasi un decennio, fino al successo della recente N-Sane Trilogy (2017) e di Crash Team Racing Nitro-Fueled (2019) sviluppati da Vicarious Visions e pubblicati da Activision, che hanno riportato in auge il peramele più famoso del mondo, aprendo le porte a Crash Bandicoot 4: It’s About Time.

Crash of the Titans
Crash in sella ai giganti? Ma anche no, grazie.

È ora

C’è un motivo se il nuovo Crash si intitola Crash Bandicoot 4 e la sua narrazione riprende dalla fine del titolo del 1998: la trilogia per PlayStation ha rappresentato di gran lunga il momento migliore nella vita del nostro bandicoot preferito, e riallacciarsi direttamente a quei titoli, forti del successo dei recenti remake, è stata una dichiarazione di intenti da parte di Toys For Bob, l’ennesimo nuovo studio ad occuparsi del franchise.

L’intento è stato quello di rivendicare con orgoglio l’appartenenza del proprio titolo alla filosofia dei giochi originali, facendosi carico di trasportare il marsupiale australiano in questa (e presumibilmente nella prossima) generazione di console, donando ai fan un capitolo all’altezza dell’importanza del brand: obiettivo centrato come dimostra il successo di pubblico e critica cui questo nuovo capitolo è andato fortunatamente incontro, successo che ha originato un paio di spinoff ovvero l’endless runner per mobile Crash Bandicoot: On the Run! (2021) e il brawler/platform competitivo online Crash Team Rumble (2023).

Un brand che ha fatto la storia di PlayStation e che merita titoli di qualità, in grado di intrattenere vecchi e nuovi giocatori con il giusto mix di sfida e divertimento.