[Mindgames] I Videogiochi diseducativi, dalla parte dei bambini

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Cento anni fa una guerra che oggi ci sembrerebbe essere stata combattuta con tecnologie da trogloditi arrivava alla sua fatidica conclusione, lasciando dietro di sé una scia di 37 milioni di cadaveri. Era una guerra che si combatteva in cunicoli di fango che odoravano di piscio ed in cui l’unico modo per far sapere alla propria famiglia che si stava bene era spedire lettere (lettere che, spesso, qualcun altro doveva scrivere al tuo posto).  Cento anni fa, certo, sembrano tanti.
Proviamo ad avvicinarci un po’ nel tempo…
quarantatré anni fa, ad esempio, la televisione italiana era ancora in bianco e nero.
Trentasei anni fa non esistevano né cellulari, né compact disc e trentun anni fa nessuno sapeva cosa fosse un Game Boy.
Oggi, invece, si parla di colonizzare Marte e di realtà virtuale.

Gap generazionale e gap tecnologico

Quando “Ai miei tempi…” inizia a significare qualcosa in più

Gap Generazionale, Gap Tencologico

 

L’evoluzione tecnologica degli ultimi anni ha contraddistinto nettamente la nostra società da quelle del passato.
Nel corso della storia umana molte conoscenze sono state trovate e si sono perdute col tramonto di varie civiltà, per poi essere riscoperte in un secondo momento.
Mai come in questi anni, tuttavia, l’umanità ha fatto passi così rapidi verso la comprensione dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande: dalle molecole alle stelle, dalla micro-robotica all’ingegneria spaziale.

Viviamo in un’epoca di meraviglie, ma dietro ogni risposta si celano altre domande e spesso non ci si sofferma a pensare a sufficienza su quanto in fretta queste meraviglie stiano cambiando la nostra societàSi potrebbe discutere sul fatto che tali progressi siano universalmente positivi, universalmente negativi o, più probabilmente, un po’ e un po’. 
Quello però che risulta essere importante, quando si parla di educazione alla tecnologia, è la rapidità con cui tali progressi sono avvenuti, a prescindere da eventuali giudizi morali (e, spesso, colmi di ipocrisia).
Sono ancora vivi, infatti, i figli di quegli uomini che aspettavano a casa una lettera del papà dal fronte della Prima Guerra Mondiale. Sono vivi i soldati che vissero gli orrori della Seconda. E la stragrande maggioranza di noi, la generazione analogico-digitale, ha genitori che guardavano da bambini la televisione in bianco e nero e che andavano a letto quando le trasmissioni si concludevano, al termine del Carosello della Rai.
Questi avvenimenti hanno prodotto un unicum nella storia umana e la loro portata, sociologicamente parlando, ha dell’epocale: l’inevitabile gap generazionale si è accentuato come mai prima d’ora e chiunque affermi che “c’è sempre stato”, non sa di cosa sta parlando o sta consapevolmente sminuendo il problema.
La dura realtà è che non bisogna guardare gli ultra ottantenni per imbattersi in persone che, semplicemente, la tecnologia non la capiscono. E spesso non la capiscono non perché siano stupide, o perché oramai per loro il gap sia effettivamente incolmabile, ma perché non vogliono conoscerla. E non vogliono conoscerla perché, sotto sotto, fa loro paura.
La società è cambiata drasticamente sotto i loro occhi, non nel lento corso della loro vita, ma nel giro d’un breve ventennio… molti dei comportamenti dei nativi digitali li lasciano perplessi (e non c’è dubbio che determinate abitudini acquisite da noi e ancor più dalle nuove generazioni non siano abitudini sane). Come spesso succede, quando qualcosa ci fa paura, cerchiamo un capro espiatorio.
E, in questo caso, tendiamo a prendercela con quello che ci appare superfluo.
I nonni dei nostri nonni se la prendevano con la televisione, poiché allontanava i figli dalla zappa e gli mostrava un altro modo di vivere, i nostri nonni se la prendono con i cellulari, che violano la sacralità della tavola apparecchiata, ed i genitori di alcuni di noi… beh,
sappiamo tutti con cosa se la prendono.

La Caccia alle Streghe

I meccanismi nella mente di un genitore disinformato

Bambini e schermi, Bambini e videogiochi

Nessuno potrebbe più immaginare un mondo senza televisione o cellulare, neppure un genitore “apprensivo”. Ma i videogame, dicono loro… “servono davvero a qualcosa?”. Questa distrazione ludica e fine a sé stessa ha qualche scopo, oltre tenere i loro preziosi figli ancorati allo schermo? No, dicono loro.
C’era, quando loro era giovani? No, non di solito. E loro, così saldi nelle loro opinioni, sono venuti su bene? Certo che sì, si dicono. Quindi… di cosa sarà mai la colpa? Quale nuova aggiunta straniante ha portato la tecnologia nella loro vita quotidiana?
Pensateci.
La televisione, per molti di loro, è divenuta un rituale al pari di come per i loro padri era la consumazione di un pasto. Spesso la televisione si è addirittura integrata in tale rituale e ne è diventata parte: pranzi davanti al telegiornale, film del dopocena tutti assieme sul divano…

i videogames, invece, hanno preso il loro bambino e lo hanno incastrato davanti ad uno schermo dietro il quale succedono cose di cui loro, anche quando riescono a capirle, difficilmente vorrebbero far parte.
Lo smartphone ha avuto un effetto simile, ma complice l’obsolescenza programmata e l’evoluzione del concetto di reperibilità (oggi dobbiamo essere sempre reperibili, per i nostri clienti, per i nostri amici, per le nostre dolci metà), gli smartphone sono qualcosa a cui i cinquantenni sono stati costretti ad adattarsi. Al Game Boy, invece, no.
Ed ecco che, con una prevedibilità un po’ sconsolante, i videogiochi (o “giochi elettronici” come li chiamano i più duri e puri del reazionarismo tecnologico) divengono lo strumento del demonio e una delle fonti dirette dell’analfabetismo funzionale.
Una lancia al loro favore va spezzata: se tutto andasse effettivamente bene, probabilmente nessuno avrebbe paura di nulla e non ci sarebbe bisogno di alcun capro espiatorio.

Problemi di velocità relativa

Quando una scienza si sviluppa più in fretta della nostra capacità di valutarne le conseguenze

evoluzione tecnologica

 

Il frenetico sviluppo tecnologico ha portato innumerevoli cambiamenti che costituiscono materia di studio terribilmente attuale nelle scienze sociali: non si hanno sufficienti dati per dire con certezza come determinate nuove abitudini possano influenzare lo sviluppo dei bambini. Un po’ come bisognerà aspettare a lungo per essere scientificamente certi del fatto che wi-fi e cellulari non causino tumori.
La medicina, la psicologia e la sociologia sono scienze sistemiche e, per dimostrare l’esistenza di legami di causa ed effetto all’origine di un fenomeno, necessitano di lunghe raccolte dati distribuite nel tempo, di un campione di individui estremamente numeroso e di molteplici studi che possano essere confrontati e verificati tra loro negli anni a seguire.
Alcune cose, tuttavia, si sanno per certo.
È ufficiale, e sarebbe sbagliato affermare il contrario, che i videogiochi possono causare dipendenza, principalmente nella fascia d’età dai 12 ai 15 anni. Tale dipendenza è stata recentemente riconosciuta (a Giugno di quest’anno) come una malattia mentale. Nel fare questi discorsi, tuttavia, si deve tenere a mente che una “malattia mentale” scientificamente riconosciuta può avere un’origine sociale (è il caso dell’isteria diagnosticata alle donne nell’Ottocento, o della più recente anoressiaed è folle credere che siano le onde elettromagnetiche prodotte da una console a causare una dipendenza chimica nell’organismo assuefatto di un bambino. 

Dipendenza da videogames

Si tratta, invece, di dipendenza psicologica.

La dipendenza da videogame è qualcosa di più di un loro semplice utilizzo intensivo. Ha a che fare con il subordinare tutto il resto ad essi, al  mettere in secondo piano ogni altro aspetto della propria vita. Questo genere di dipendenze, e quella da videogame è solo una tra tante, colpiscono l’individuo che non è completamente inserito nel tessuto sociale che lo circonda. Ragazzi che hanno problemi in famiglia, a scuola… la colpa, insomma, difficilmente può essere data ai videogame. Questi soggetti, molto probabilmente, sarebbero divenuti vittima di altri tipi di dipendenza. La soluzione non è crescere un bambino senza videogames, ma cercare di crescerlo in una famiglia sana ed attenta alle sue necessità.
L’educazione alla tecnologia è e diverrà sempre più importante in futuro. Ma gli adolescenti non si educano da soli, vanno educati e, per farlo, ci vogliono educatori preparati.

Educare alla tecnologia

Bambini e televisione

 

Il mondo digitale è oggettivamente un luogo pericoloso per gli adolescenti e ancora di più per i bambini, ma un adulto consapevole, che non si è lasciato spaventare dalla tecnologia e si è tenuto informato, ha tutti gli strumenti necessari a proteggere suo figlio o sua figlia durante il suo sviluppo.
PEGI descrittori di contenutoIl parental control permetterà ad un preadolescente di scoprire la propria sessualità sussurrandosi voci di corridoio sentite da amici di amici e non incappando in qualche sito (che potrebbe anche intasare di virus il computer dei genitori, tra l’altro), i descrittori del contenuto della PEGI e dell’USK vi permetteranno di sapere se un videogame contiene violenza, turpiloquio, scene di paura, espressioni esplicite che riguardano il sesso, discriminazione, tutto… sarà il genitore che conosce suo figlio, la sua sensibilità e la sua maturità, a sapere se egli è pronto a determinati contenuti.
Se i descrittori di contenuto non fossero sufficienti, poi, il buon educatore post-medievale può addirittura (tenetevi forte) utilizzare Google per cercare il titolo di un videogame, leggerne la trama e sbirciare scene di gameplay prima di comprarlo a suo figlio in tutta sicurezza.
È ovvio che far giocare un undicenne a GTA non è una buona idea, non serve la scienza per capirlo. Ma quanti ragazzi pieni di brufoli hanno scoperto che il romanticismo non è necessariamente una cosa da femminucce grazie alla storia d’amore tra Tidus e Yuna? Quanti pre-adolescenti si sono posti con Vivi le loro prime domande esistenziali? E come impersonare un eroe, che combatte contro il male per proteggere chi ama, può danneggiare la moralità o l’istruzione di un bambino?
Quanti ragazzini piccolissimi della nostra generazione, freschi di asilo o di prima elementare, hanno affinato le loro capacità di lettura parlando con ogni singolo PNG e leggendo ogni singolo cartello presente in Pokèmon Rosso e Pokèmon Blu, facendo, divertendosi, più esercizio di quanto altrimenti avrebbero mai fatto?
Esistono cose molto più diseducative dei videogames che provengono dalle tecnologie moderne e la televisione, in questo, continua a mantenere il primato assoluto. La subdola passività con cui accompagna informazioni nel nostro cervello anche quando non ce ne accorgiamo è molto più dannosa della libertà e dell’innocenza che esistono dietro ad un gioco.
Il danno che può causare in un bambino la visione abituale di reality, specialmente se i genitori non hanno la cultura e/o il buonsenso necessario a spiegargli che, di “reale”, quei programmi non hanno nulla e che ci sono dei copioni da imparare e delle linee da seguire è di gran lunga maggiore.
Anche la pubblicità televisiva, ad esempio, può danneggiare lo sviluppo di un senso e di un pensiero critico nei più piccoli e nasconde molte più insidie dei tanto odiati Ads presenti nella rete. Dovendo piazzare un prodotto, infatti, e dovendo farlo oggi, nel tempo e nell’epoca che stiamo vivendo, le pubblicità sono piene zeppe di individui contemporanei sorridenti e perfettamente a loro agio. Non sarebbe un problema se il loro numero, la loro frequenza di riproduzione ed il media tramite cui vengono mostrate non ottenessero il risultato di veicolare anche molti altri messaggi involontari. Primo fra tutti il fatto che tutto va bene e che, se si è infelici, o non si hanno abbastanza oggetti, o siamo noi ad essere in qualche modo sbagliati. Non occorre pensarlo e crederlo razionalmente: dopo anni di assimilazione passiva è il nostro inconscio a fare tutto il lavoro.

I doveri di un genitore 2.0

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Il succo, banalmente, è che uno degli obiettivi della tecnologia digitale è dare tutto (informazioni, divertimento, ecc.), subito, in qualunque momento, a chiunque può accedervi.
Un bambino non dovrebbe avere tutto, subito. Dovrebbe essere esposto al mondo, riassunto e digitalizzato dalla tecnologia, un po’ per volta… man mano che cresce.
Far si che questo avvenga nel modo corretto, tuttavia, non è compito dei Game Designers o dei produttori di videogame, ma dei suoi genitori.
Se volete educare vostro figlio ad un utilizzo responsabile della tecnologia fate attenzione a quello che guarda in tv, anzitutto. Essendo un media più “antico” della rete e dei videogames, la sociologia e la psicologia dello sviluppo sono piene di studi scientifici al riguardo.
Poi leggetegli libri e storie per farlo addormentare finché potete, comprategli costruzioni e mattoncini per fargli usare la sua fantasia, se siete dei Master giocateci di ruolo assieme… dimostrategli che non serve uno schermo per vivere avventure e sentirsele sotto la pelle, emozionarsi… ed ovviamente, certo, assicuratevi che non passi ore ed ore davanti ad un videogioco e che il videogioco in questione sia adatto alla sua età.
Ma permettetegli di vivere nel suo tempo, permettetegli di essere figlio della sua epoca. Educatelo, ma poi, dategli credito.
Se pensate che mandare un bambino a scuola e fargli scoprire di essere l’unico a non aver mai giocato ad un videogame sia il modo migliore per educarlo, forse di sviluppo non ne sapete poi molto: proverà ingiustamente un enorme imbarazzo ed un’invidia viscerale, sarà escluso da tantissimi discorsi, precludendosi amicizie e ritrovandosi etichetto come “quello strano”
e non sarà colpa degli altri bambini, ma di chi ha deciso, senza informarsi, che “i giochi elettronici fanno male”. Di chi ha scelto di proibire perché era la strada più rapida e quella meno impegnativa.

L’esclusione, la solitudine e l’impossibilità ad integrarsi… sono queste le cose che possono fare male ad un bambino che sta crescendo. E, a differenza del collegamento tra videogames ed analfabetismo, questo è un fatto scientifico.