Una delle caratteristiche attraverso cui la “critica” opera una valutazione di un’opera è spesso legata al quanto quest’ultima riesca a rimanere nei pensieri di chi l’ha esperita dopo la sua conclusione. Parlare di conclusioen per un videogioco multigiocatore è chiaramente complicato, non lo possiamo negare, ma Arc Raiders ha delle partite che cominciato e finiscono; alle volte finiscono con qualche proiettile di troppo, altre volte invece con delle amicizie che fioriscono e svaniscono poco dopo.
Embark, con alle spalle uno dei pochi FPS “interessanti” degli ultimi anni, è riuscita nel cotruire un videogioco in grado effettivamente di dire qualcosa in uno dei mercati più fustigati dal modello free to play: quello degli extraction shooter. Il tutto, poi, puntando su un fattore che non è pienamente in loro controllo: quello dell’umanità.
Partiamo ora dall’elefante nella stanza che però non è davvero importante ai fini del giudizio: Arc Raiders è un videogioco ambientato IN ITALIA (!!!), più precisamente tra Campania e Calabria, tanto da avere tra le possibili mappe lo SPAZIOPORTO DI ACERRA. Non so se ci stiamo rendendo conto dell’assurdità della cosa ma ok, ora possiamo lasciar da parte questo dettaglio e parlare delle cose importanti, tipo l’ambientazione del gioco.
Eh si, perché parte del fascino di Arc Raiders dipende proprio dalla sua premessa, semplice e potente. Il mondo come lo conosciamo è finito, stroncato dall’accoppiata clima fuori controllo + IA fuori controllo e, per far fronte a questa situazione, l’umanità si è ritirata nel sottosuolo in una comunità chiamata Speranza (nome non casuale), mentre in superficie dominano le macchine di ARC, un sistema robotico ostile che pattuglia il pianeta.
I giocatori vestono i panni dei raider, uomini e donne che scelgono di risalire in superficie per recuperare risorse, armi, medicine e reliquie del vecchio mondo; queste risorse sono fondamentali per mantenere in vita la comunità di Speranza, costretta a vite difficili a causa della scarsità di risorse a disposizione del giocatore.
La narrativa in questione lascia da parte le cutscene in favore di una costruzione del mondo più silenziosa, che si dipana attraverso brevi dialoghi ambientali, le descrizioni di oggetti e quest e, più in generale, una narrativa ambientale che trasuda da quello che rimane del pianeta terra. Quello che si trova sopra la superficie di speranza è un mondo post-apocalittico in tutto e per tutto che, però, lascia ancora spazio per far germogliare alleanze tra chi ha ancora abbastanza raziocinio da poterle costruire.
Una delle motivazioni che plausibilmente ha guidato il grande successo commerciale di Arc Raiders, che ha rapidamente fatto registrare più di 300.000 giocatori in contemporanea connessi su Steam a pochissimo giorni dal lancio, è la sua commistione di comparto tecnico e direzione artistica.
L’identità visiva del gioco è molto forte, mescolando il retrofuturismo che oggi chiamiamo NASA-punk con atmosfere da western fantascientifico tra cappotti impolverati, lunghi mantelli, zaini e vestiti rattoppati. Da un punto di vista estetico tutte queste scelte vanno a rafforzare l’idea di un mondo post-apocalittico dove effettivamente la figura del raider è fondamentale: le risorse si riciclano e adattano per permettere a ciò che resta dell’umanità di costruirsi un futuro. Tutto questo viene anche restituito attraverso le mappe di gioco: al momento nel gioco ci sono quattro mappe diverse, divise tra uno spazioporto desertico (viva Acerra), una valle verdeggiante che ricorda da vicino alcuni scorci di Endor, in Star Wars, una città quasi completamente sepolta dalla sabbia e una palude vicina a una grande diga in disuso.
Dal punto di vista tecnico, inoltre, con Arc Raiders abbiamo a che fare con un caso abbastanza raro di Unreal Engine 5 utilizzato in maniera estremamente efficiente, con un’ottimizzazione del motore grafico tale da far impallidire i vari giochi tripla A usciti durante il corso dell’anno. Il colpo d’occhio è poi impressionante, tra modelli poligonali di alta qualità, un enorme quantitaivo di dettagli a schermo, effetti particellari esaltanti e un sistema di illuminazione di grande pregio che offre anche un buio particolarmente realistico e spaventoso. Le analisi tecniche portate avanti da Digital Foundry hanno poi evidenziato come il gioco riesca nelle sue buone prestazioni grazie ad un Unreal Engine 5 spogliato di alcune delle sue tecnologie più recenti; che sia un buon esempio che altri sviluppatori seguiranno?
Chiunque abbia giocato a un extraction shooter sa bene quanto sia importante il comparto audio, in quanto quest’ultimo permette di avere una leggibilità maggiore delle situazioni presenti all’interno dell’esperienza. Ponendo l’accento sul “rischio” di esplorare e interagire con il mondo, il comparto sonoro funge da palliativo e da strumento per permettere al giocatore di ottenere informazioni di vario genere su ciò che lo circonda.
Perfetto: Embark sapeva perfettamente di dover spingere su questo elemento e, attraverso un comparto audio veramente incredibile, è riuscita a dimostrare il livello di eccellenza tecnica che ha raggiunto nel corso del tempo. Non soltanto parliamo di un audio design “bello” da un punto di vista del gusto, per realismo degli effetti e immersione generata, ma anche un audio design leggibile che è fondamentale per poter giocare al meglio.
Ogni macchina Arc ha un suo suono distintivo ed un comportamento sonoro differente, tra vibrazioni, fischi e rantolii che permettono di riconoscere l’avversario ancor prima di vederlo con i propri occhi. Gli arsenali che puntellano l’esperienza di gioco hanno tutti colpi d’arma da fuoco riconoscibili per timbro e peso, permettendo quindi di capire a un giocatore ascoltatore l’entità dello scontro e la natura dello stesso. Le superfici di cui il gioco è tappezzato sono collegate a specifici suoni fatti dai passi del giocatore, permettendo quindi un ecolocalizzazione molto precisa, simile a quella che i giocatori di Escape From Tarkov tanto incensano del capostipite del genere.
Il risultato finale è galvanizzante in quanto le orecchie finiscono per diventare anche più importanti degli occhi nella lettura delle situazioni: niente male, vero?
Arriviamo quindi alla ciccia: com’è il gioco controller/mouse alla mano?
Arc Raiders è un extraction shooter in terza persona in cui il giocatore, partendo da un hub sicuro, deve scegliere equipaggiamento e consumabili da portarsi dietro e esplorare una tra diverse mappe, completando quest e riportando a casa risorse; queste ultime saranno realmente ottenute soltanto se si porta a termine la procedura di estrazione, ovvero una lenta e rischiosa uscita dalla mappa del gioco. I giocatori che durante una partita periscono perdono tutto quello che avevano all’interno del loro zaino, in quanto questo può essere raccolto da un altro giocatore; una struttura classica, in cui rischio e ricompensa sono bilanciati secondo gli stilemi classici del genere, con strategie che tengono sempre sull’attenti il giocatore senza però stressarlo troppo, complici una serie di idee di cui vi parliamo meglio fra poco.
Esplorando il mondo di gioco ci si può imbattere in due grandi categorie di minacce: i giocatori umani e, sopratutto ( e contro ogni previsione) gli ARC. Questi ultimi sono modelli di robot di varie forme e dimensioni dotati di pattern di intelligenza artificiale piuttosto avanzati per un videogioco multigiocatore che non ha come unico focus il PVE: ci sono robot che fungono da mine ambulanti, robot che invece provvedono semplicemente a chiamare rinforzi se individuano il giocatore, robot ricognitori che possono inseguire il giocatore all’interno di nascondigli ma anche bestioni molto più grandi, che fungono da veri e propri raid boss e che sono praticamente impossibili da affrontare senza la collaborazione di altri giocatori.
Una simile varietà di azioni possibili da parte dei “mob” obbliga il giocatore a pianificare e a muoversi in maniera intelligente; anche un piccolo gruppo di droni mina, se incontrati mentre si è in fuga da un nemico più veloce, può risultare fatale; l’ottimo level design della mappa, inoltre, costringe il giocatore sempre a sfruttare al massimo le proprie circostanze per cercare di avere la meglio nei confronti degli avversari.
La verticalità dei livelli e il feeling delle armi da fuoco, mescolandosi, obbligano il giocatore a fare affidamento su uno stile di combattimento quasi da “guerriglia” per affrontare le minacce; i tempi di ricarica dilatati, poi, rendono ogni scontro a fuoco molto teso e costringono gruppi di giocatori a “organizzarsi” da un punto di vista prettamente materiale. A questo si aggiunge poi un ricco arsenale di strumenti che riesce a esaltare la creatività del giocatore tra ziplines portatili, granate di ogni forma e funzione, jammer per chiudere porte, flare manuali per attirare o depistare altri giocatori, fino a gadget come il rampino. La libertà d’uso lasciata al giocatore, poi, è elevatissima e questo va a inquadrare il singolo come un agente all’interno di un mondo in grado di reagire in maniera dinamica rispetto le proprie idee
Dulcis in fundo c’è un grande skill tree di cui parlare, con il quale poter armeggiare per “buildare” il proprio personaggio al fine di renderlo più efficente in una tra tre branche: sopravvivenza, movimento e “looting”.
La parte più sorprendente di Arc Raiders è quanto risulti, almeno per il momento, equilibrato nel suo esistere a metà tra PVE e PVP; sulla carta, il gioco permette (e anche incentiva parzialmente) il PvP ma, nella pratica, la community sembra essere molto più gentile di quanto accade altrove. Il mondo è talmente ostile che molti giocatori scelgono istintivamente di aiutarsi anziché eliminarsi e questo fa brillare ulteriormente il sistema di gioco che premia le scelte “emergenti” e l’improvvisazioni, complice anche la chat vocale di prossimità che fa metà del lavoro nel generare una percezione di comunità tra giocatori.
Buono il lavoro fatto da Embark nella costruzione di sistemi per gestire l’endgame, così da rendere il gioco invitate sul lungo periodo per tutte le fasce di pubblico. Al momento questi sono i trials, ovvero sfide settimanali PVE che richiedono il soddisfare particolari richieste del gioco, tra risorse, scotnri e altro e, sopratutto, le expeditions: un sistema di “prestigio” che permette di congedare il personaggio e iniziare da capo con un nuovo raider, stavolta con bonus esclusivi, il tutto dopo aver raggiunto il level cap.
Funziona tutto all’interno dell’esperienza di gioco? Non proprio: in primis ci sembra assurdo che il creator del proprio raider sia così limitato ma, d’altronde, lo è perché in qualche maniera il sistema di monetizzazione interno al gioco deve essere spinto. Esatto: nonostante si paghi quaranta euro per portarsi a casa il gioco, Arc Raiders ha comunque al suo interno un nutrito ecosistema di oggetti acquistabili per migliorare l’aspetto estetico del proprio raider; è ok, non è invasivo, ci dispiace soltanto vedere l’editor iniziale sguarnito.
La seconda cosa che non ci ha convinto a pieno è l’hub centrale di Speranza, perfettamente leggibile grazie a un’interfaccia utente grandiosa ma non per questo estremamente efficace nel suo essere vettore di storytelling; in un gioco così “sociale” nelle sue interazioni, avere una Speranza fisicamente visitabile da diversi giocatori permetterebbe di aumentare ancora di più l’immersione e il coinvolgimento, dando un ulteriore strumento di cementazione alla community che già ora sembra essere piuttosto forte.
Arc Raiders non è solo uno dei migliori extraction shooter in circolazione: è uno di quei rari videogiochi multiplayer che riescono a farti sentire piccolo davanti al mondo, ma grande nelle scelte che fai. Lo fa risultando accessibile al grande pubblico senza però tradire le premesse del genere e lo fa incentivando il “bello” dei videogiochi multiplayer: il loro essere strumenti di socialità, invece che di tossicità. Speriamo che duri così perché è quasi troppo bello per essere vero.
This post was published on 12 Novembre 2025 23:00
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