L’utenza dei social ha smesso di nascondere la propria marcata avversione verso quegli algoritmi informatici che dovrebbero “aiutarti” a visualizzare “quello che davvero stai cercando”. Quelle stringhe a metà strada tra la necessità di rendere più smart la ricerca per davvero e il rendere semplicemente più appetibili le pubblicità; tra il servizio ricamato attorno all’utente tipico dei piccoli ed accoglienti negozietti di quartiere ed il paternalismo di chi sa “cosa è meglio per te” proprio delle multinazionali.
Qualcuno di voi si ricorda di Diaspora, Vivaldi (non quel Vivaldi, ovviamente) o Peach? No? Forse erano troppi anni fa…
E dei più recenti Sarahah, l’app stalker-friendly che prende il nome dalla parola araba “onestà” ma consente di mandare messaggi del tutto anonimi, o di Ello, il social-media per artisti autodefiniti a cui si accede solo su invito? Qualcuno ricorda?
Andrebbe bene anche qualche reminiscenza di Mastodon, il “nuovo Twitter” di Aprile 2017… ricordate? Facciamo per alzata di mano? … proprio nessuno…?
Appunto.
Sia chiaro: Vero non è (ancora?) finito nel dimenticatoio. Ma l’entusiasmo che ne ha visto l’ascesa tra le classifiche delle app più scaricate ha subito una decisiva battuta d’arresto: a pochi giorni di distanza dal suo massimo picco di popolarità sono emersi alcuni dubbi sulla moralità e sulla competenza del CEO del progetto, il cui passato ed i cui trascorsi hanno causato la nascita di una vera e propria campagna on-line atta a boicottare il nuovo social network, al grido di battaglia / hashtag di: #DeleteVero.
Prima di chiederci cosa sia successo e cosa si recrimini al Chief Executive Office di Vero, occorre spendere qualche parola sul perché proprio adesso l’applicazione abbia avuto questa esplosione di notorietà. Far salire un nuovo social network sul podio delle app più scaricate è un processo che richiede tempo. La stessa Sarahah ha impiegato circa un anno ad ottenere la popolarità temporanea che ha raggiunto e Facebook stesso non è esploso particolarmente in fretta, non se guardiamo i numeri di utenza attuali.
Niente di strano, quindi, se la vita di Vero sia ben più lunga di quanto si possa inizialmente immaginare. Nonostante notizie, recensioni ed impressioni al riguardo siano iniziate ad apparire qui e lì sui nostri schermi solo da una settimana, in realtà l’app è stata lanciata nel 2015.
Se ottieni le tue informazioni da degli algoritmi sul tuo telefono […] qualsiasi siano i tuoi pregiudizi ti saranno ripresentati. E questo li rinforzerà sempre di più nel tempo. Questo è quello che sta avvenendo oggi con queste pagine Facebook da cui sempre più persone traggono informazioni. Ed ad un certo punto si sta semplicemente vivendo dentro una bolla. Questo è anche uno dei motivi per cui il pensiero politico si è polarizzato così tanto nel mondo.
La promessa di un social network che, grazie a pochi spicci di abbonamento annuo, afferma di tenere i suoi utilizzatori lontani da qualsiasi pubblicità e di mostrare i vari post pubblicati esclusivamente in ordine cronologico, senza sfruttare algoritmi di alcun tipo, è una vera e propria ventata d’aria fresca in un panorama in cui la nostra esperienza sulla rete risulta venir sempre più “guidata”.
Il nuovo social sembra, dunque, un ottimo prodotto. Tuttavia non è per ragioni economiche o tecniche che alcuni internauti si sono scagliati contro il nuovo social network. Cos’è andato storto, quindi? Qual è stata la scintilla che ha fatto incendiare l’indignazione della rete?
Il co-fondatore e CEO di Vero è Ayman Ḥarīrī, un ereditiere miliardario Libanese, laureato in scienze informatiche alla Georgetown Univeristy (US) e figlio dell’ex primo ministro del Libano Rafīq al-Ḥarīrī, assassinato a Beirut il 14 Febbraio 2014 durante un attentato suicida che portò alla morte altre 21 persone. Fin qui niente di grave, anzi.
La fama, tuttavia, soprattutto quella improvvisa, spinge le persone ad informarsi. È pura curiosità e nulla più: nessun intento sabotatore o istinto del bastian contrario. Spesso proprio quegli algoritmi che determinano i risultati di ogni nostra ricerca intervengono e ci fanno trovare cose che sapevamo già. Altre volte, invece, salta fuori qualcosa di nuovo. O meglio qualcosa di vecchio, ma che la memoria a breve termine del mondo internauta aveva già seppellito sotto tonnellate di immagini di gattini.
Il pattern piuttosto consolidato dell’azienda era quello di assumere migliaia di lavoratori stranieri, stiparli in campi di lavoro con un accesso estremamente limitato all’acqua ed al cibo nei pressi del cantiere in cui avrebbero dovuto lavorare. A quel punto, con tempistiche diverse anche a seconda della tabella di marcia del cantiere in questione, l’azienda smetteva di pagarli e non rinnovava loro il permesso di soggiorno per motivi di lavoro (Iqama), impedendogli così di lasciare il Paese o addirittura il campo per paura di essere arrestati e finire in prigione in un Paese straniero.
Questo articolo in particolare è rimbalzato a lungo nella rete, riportando il caso eclatante di oltre novemila Filippini che, anche dopo che l’Arabia Saudita aveva creato appositamente per loro una scappatoia normativa tale da poterli far tornare a casa, si sono rifiutati di lasciare il campo di lavoro fintanto che non fossero stati pagati.
Questo è solo il più celebre dei casi, nel 2016 duecento lavoratori francesi si sono ritrovati in una situazione estremamente simile e durante la costruzione del King Abdulaziz Center for World Culture la situazione dei lavoratori Senegalesi della Saudi Oger ha spinto almeno uno di essi ad impiccarsi sul posto di lavoro.
Non volendo attribuire i mancati pagamenti e la mancanza dei rinnovi dei permessi ad altre cause fuorché quelle squisitamente economiche, le accuse di mismanagement (ovvero di “pessima gestione”) e di corruzione che avrebbero impedito alla Saudi Oger di pagare i suoi lavoratori dal Novembre del 2015 restano comunque due macchie sul curriculum di Ayman Ḥarīrī che è difficile giustificare, anche senza voler tener conto di tutti gli scandali umanitari.
Un paio di giorni sono stati sufficienti affinché gli utenti più accorti unissero i puntini delle vicende soprastanti e, nonostante ci è difficile credere che la crisi dell’economia libica del 2015, la sofferenza di tutti quei lavoratori e gli scandali internazionali che ne conseguirono furono esclusivamente colpa di un solo uomo, è stato evidente fin dai primi tweet che hanno dato il via a #DeleteVero che il popolo della rete non avrebbe concesso una seconda opportunità.
A prescindere da #DeleteVero, le possibilità che l’app riesca a soppiantare realmente i suoi rivali Istagram e Facebook sono davvero minime. Nonostante qualche intuizione indubbiamente geniale, come l’eliminazione di algoritmi e pubblicità in cambio di un prezzo davvero minimo e l’introduzione di “categorie” diverse di amici simili alle cerchie di Google Plus (intimi, amici, conoscenti e followers) tutte le difficoltà già riscontrate dagli altri social network che hanno fallito nell’impresa si sarebbero ripresentate, una volta passata la moda del momento. Sul proprio profilo Facebook, infatti, tutti noi abbiamo foto e ricordi da cui difficilmente riusciremmo a separarci (anche perché, probabilmente, non li abbiamo più da nessun’altra parte se non lì) e le difficoltà di “ripartire da zero” ricomponendo la propria lista amici un nome alla volta scoraggia anche i meno pigri tra gli internauti: perché farlo? Neanche avessimo perso il telefono con dentro la nostra SIM.
Se la fama di Vero è solo una cometa passeggera, o diverrà una stella fissa nella nostra costellazione di social network ancora non è chiaro. Quello che è evidente è che, finché è ancora al centro dei riflettori Vero fa buon viso a cattivo gioco e, dimostrando il vecchio adagio che afferma non esista una “brutta” pubblicità, sfrutta al massimo la visibilità ottenuta: sull’onda del successo è stato esteso il periodo temporale per iscriversi ed ottenere l’app “Free to Life“. Scaricandolo ora si sarà esenti, vita natural durante, dal dover pagare il futuro abbonamento annuale, obbligatorio per tutti gli altri.
This post was published on 2 Marzo 2018 13:54
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